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"Idee fisse" di Joan Didion riletto (e ripubblicato) nel ventennale dell'11 settembre: un dolore necessario alla guarigione

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Idee fisse
di Joan Didion
Il Saggiatore, settembre 2021

Traduzione di Cristina Cecchi

60 pp.
€ 12 (cartaceo)

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Il ventennale dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle non poteva capitare in un momento più duro. Mentre in Afghanistan la caotica ritirata americana ha causato una cascata di eventi, attirando l’attenzione di tutto il mondo sul destino dei civili afghani che, da un giorno all’altro, si sono ritrovati a vivere sotto la dittatura talebana, viene scontato chiedersi, da osservatori esterni, cosa gli americani pensino del ruolo da loro giocato nella storia contemporanea del Medio Oriente. Per far ciò, e per orientarsi in una contemporaneità storica che è necessariamente turbolenta e nebbiosa, non è sbagliato rivolgere lo sguardo all’indietro per cercare le chiavi interpretative di cui abbiamo bisogno: tra questi documenti va sicuramente annoverato il piccolo saggio Fixed Ideas di Joan Didion, scritto nel 2004, pochi anni dopo l’attentato, e ripubblicato da poco sotto la copertina collettiva che Il Saggiatore ha dedicato alla più importante saggista americana vivente. Tornare all’origine per rifuggire le retoriche colpevolizzanti del presente. Fare un passo indietro e vedere come sono nate le “idee fisse” che ancora oggi costituiscono le fondamenta dell’agire politico. 

Leggendo oggi queste poche pagine – e superato lo shock di vedere l’impostazione grafica che rispecchia due torri gemelle di parole costruite sulla pagina destra e sinistra – quello che colpisce è l’immediatezza del racconto psicologico di cosa significhi essere americano e vivere a New York nelle due settimane dopo il fatto. Una donna americana, una scrittrice abituata a mettere in parole ciò che le succede, che improvvisamente testimonia attorno a sé una sorta di mutismo selettivo. 

Bastano pochi giorni, una settimana, e dopo il fatto iniziano già a sedimentarsi le prime “idee fisse”, sintomo di un coma protettivo che è in brevissimo tempo calato come un manto a coprire tutto il popolo americano. E New York in particolare, quella città che la Didion, in un libro scritto poco prima dell’11 settembre, aveva quantomai appropriatamente descritto come “mortale”. Una città che sembra invincibile solo a chi non ci vive, e che in realtà si basa su magie condivise, su incantesimi, e che, dopo l’11 settembre, ha tacitamente stipulato un imperativo collettivo: quello di non dire. 

Ed è per questo che mentre il governo di Washington spostava l’accaduto per farlo rientrare nella propria agenda di politica estera, il popolo non ha fatto caso, non diceva, non protestava. Meglio tacere, meglio mettere bandiere all’ingresso della propria casa, meglio stringersi l’un l’altro sostenendo il proprio governo qualunque cosa faccia, piuttosto che criticandone l’operato. Mentre i mesi passavano e l’America scivolava in una guerra dichiarata per orgoglio.

Ma cosa ricaviamo oggi da questo resoconto di terribile normalità? In che modo la distanza storica si posiziona nei confronti di quel tacito accordo di tacere? Oggi è impossibile non indignarsi nel riscontrare come il silenzio ha conseguenze più forti di ciascuna parola, è impossibile non commuoversi nel leggere del trattamento inferto dalla vox populi a Susan Sontag, che ha cercato di avvertire della tragedia che si stava verificando nella cultura collettiva, e che, amara fortuna, non è con noi oggi a vederne le estreme conseguenze. Joan Didion, che della parola ha fatto lavoro e passione, trasuda dolore nel testimoniare come i giornalisti e scrittori dell’epoca abbiano deciso di non svolgere il loro lavoro. Allora noi, oggi, dopo aver letto il suo libro, le dobbiamo qualcosa in cambio: scegliamo bene cosa dire e come farlo. Non facciamoci trascinare dalle polemiche o dalle retoriche. E ricordiamoci dell’importanza di ogni parola detta. E non detta.

Marta Olivi