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Il crollo del sogno, la perdita, la vita di provincia: "Holiday" e la riscoperta di Stanley Middleton

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Holiday
di Stanley Middleton
SEM, 2021

Traduzione di Alfredo Colitto

pp. 256
€ 18 (cartaceo)
€ 2,99 (ebook)





L’accostamento più frequente cui è soggetto Holiday, il romanzo con il quale il pubblico italiano conosce per la prima volta la penna eccelsa di Stanley Middleton, è Stoner, a detta di molti il capolavoro di John Williams. Pur amando molto Stoner gli ho sempre preferito Augustus, un testo intimo e universale insieme, retto da una scrittura che tocca vette assolute. Ma questa è un’altra storia e della mia personale passione per Williams – uno di quegli autori rimasti troppo a lungo nell’oblio e poi, forse anche per un caso fortuito, riscoperti da critica e pubblico – ho speso negli anni molte parole nel tentativo di indagare quelle pagine dense di vita. 
Il paragone tra Holiday e Stoner regge e ne riconosco le ragioni, a partire dall’uso mirabile della parola, cesellata con cura, e il richiamo al racconto di una vita ordinaria, scossa dai drammi personali e privati, che rappresenta anche uno spaccato ideale del mondo e dell’epoca entro cui è calato. Tanto Stoner quanto Edwin Fisher, il protagonista di Holiday, sono due accademici, che potremmo definire mediocri per la scarsa influenza che i loro studi esercitano sul mondo universitario; entrambi bramano – o, meglio, bramavano – una scalata sociale con la quale conquistare rispetto e onore, prendendo sempre più le distanze dal mondo dal quale provengono e che ha esercitato un’influenza ben più profonda di quanto sospettino o vorrebbero. In entrambi, ancora, osserviamo la sconfitta delle ambizioni, i desideri che si scontrano con la realtà e il fallimento delle relazioni personali. Sono molti, quindi, i punti di contatto fra questi due romanzi, ma è bene non forzare più del dovuto il paragone: Holiday è un testo che può benissimo reggere da solo il peso della critica letteraria forte di una storia che si fa strada lentamente nel lettore avvinto da una lingua magistralmente resa dalla traduzione di Alfredo Colitto, da uno sguardo che osserva con disincanto la natura umana e ce la restituisce con tutte le sue sfumature e miserie quotidiane, da un mondo perfettamente riconoscibile e circoscritto – l’Inghilterra, o meglio, una località balneare, degli anni Settanta – ma che per molti versi dialoga egregiamente con il presente di altri luoghi.
«Non è felice quindi?» 
«Non saprei. Non so chi possa sostenere di esserlo». (p. 194)
Autore molto prolifero seppur non particolarmente noto, è appunto con questo romanzo che Middleton aveva catturato l’interesse della critica, vincendo – a pari merito con Nadine Gordimer – il Booker Prize del ’74 e aprendo uno squarcio sulla propria produzione letteraria, lo sguardo sempre puntato sulla middleclass, le relazioni famigliari, l’interesse per la vita di provincia. Osservatore attento, restituisce ai lettori quel mondo mediante i dettagli, gesti e particolari solo all’apparenza minimi ma capaci invece di racchiudere l’essenza di un personaggio, i suoi tormenti, le sue zone d’ombra e inquietudini, gli slanci e i desideri. E quale luogo meglio di una località balneare può fungere da ambiente ideale per osservare la natura umana? È qui che Edwin Fisher cerca rifugio per fuggire al caos della propria vita coniugale: ha da poco lasciato la moglie, al culmine dell’ennesima lite furiosa e quella pensione un po’ dimessa vicina alla costa dove ha trascorso tante estati della sua infanzia e adolescenza insieme ai genitori è il luogo ideale per provare a mettere ordine ai pensieri, osservare la propria vita intrecciando il ricordo alla narrazione del presente.
Amava quel posto, con le sue arcate coperte in metallo, come se la rivoluzione industriale si fosse ammorbidita, producendo arti più miti. Ci andava da ragazzo, sfuggendo ai suoi noiosi genitori; a occhi spalancati, si faceva strada tra cappelli panama e scarpe sportive bianche, ascoltava conversazioni, ammirava le ragazze, invidiava chi aveva mezzi economici al di sopra dei suoi. (p. 7)
Nel microcosmo abilmente creato da Middleton, Fisher osserva la varietà umana che sfila davanti ai suoi occhi: le dinamiche di coppia e le relazioni sociali fatte di apparenze e convenzioni, i tradimenti, le piccole miserie quotidiane, in quel breve tempo sospeso della villeggiatura.
Tutti facevano lo sforzo di comportarsi bene, di tenere le dita nel modo giusto, di non macchiare le tovaglie, e il cerimoniale gli piaceva. In quella sala decorata bambole e fiori di carta era giusto comportarsi da gentleman e copiare le signore. Quando il giudizio fosse stato emesso, lunedì sera al più tardi, tutti si sarebbero rilassati, con una pronuncia meno corretta, chiacchiere salaci e scambi di confidenze. Ma la prima cena dopo un lungo giorno di vacanza era molto formale. (p. 59)
Ruoli da interpretare e apparenze che lentamente rivelano però sempre più marcate le crepe sulla facciata, su cui lo sguardo di Middleton si posa dolente. E Fisher, che a quel luogo è legato da ricordi d’infanzia, ne è in parte estraneo: l’appartenenza al mondo accademico, lo status sociale venuto con il matrimonio, mettono una certa distanza fra lui e quell’ambiente. Ma è solo qui che può tentare di sciogliere i nodi del presente, indagare le ragioni della crisi coniugale e, con la prepotente intromissione dei suoceri, provare ad appianare le cose con la moglie. 
Ancora una volta sembrano essere il rispetto delle apparenze, il decoro, a fornire la ragione più solida per risanare un rapporto segnato dalla perdita di un figlio e dalle incomprensioni. Ecco, l’essere figlio, la paternità, sono un nodo cruciale nel dramma messo in scena da Middleton, a partire dalla figura con cui Fisher non è mai davvero venuto a patti: 
Suo padre. L’uomo che da adolescente aveva disapprovato, che gli aveva lasciato del denaro, che lavorava e faceva battute, era diventato un totem. (p. 217)
Un uomo duro a tratti, ancorato alle proprie certezze, una figura ingombrante, da cui prendere le distanze il più possibile; un rapporto che ancora, a distanza di anni dalla scomparsa dell’uomo, resta irrisolto, complicato. E che in parte si specchia nella relazione con il suocero, le ingerenze nel matrimonio e nella crisi che Fisher e Meg stanno attraversando, nel tentativo ancora una volta di dimostrare a un surrogato di figura paterna la propria individualità. La paternità, quindi, è un ruolo cruciale in questa storia, e nel raccontare il dramma personale di Fisher, la perdita del figlio, il lutto, la scrittura di Middleton si fa estremamente misurata, concentrata sul dettaglio, il gesto. La mano del padre che cerca un’ultima volta quella del figlio, il senso di colpa, il vuoto, la distanza sempre più grande tra marito e moglie che affrontano il lutto. Ma il disagio tra Fisher e Meg ha radici più profonde ed ecco che si insinua nella narrazione il fantasma della malattia mentale, la rabbia, la violenza forse. 
Sono molti i nodi di questa storia, non necessariamente verranno tutti sciolti. È un dramma intimo, teso dalla prima all’ultima pagina, mentre l’eco del capolavoro di Ibsen Casa di bambola si fa sempre più forte. E l’infelicità una condizione che appare irreversibile.

Di Debora Lambruschini