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"A una certa ora di un dato giorno" di Mariantonia Avati: l'infelicità si impara in famiglia?

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A una certa ora di un dato giorno
di Mariantonia Avati
La nave di Teseo, maggio 2020

pp. 192
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Tutte le famiglie felici si somigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo…
L’incipit (forse) più riuscito della storia della letteratura moderna è particolarmente adatto a riassumere con lapidario giudizio il romanzo di Mariantonia Avati, A una certa ora di un dato giorno, perché, come nel romanzo di Tolstoj, Avati costringe il lettore a calarsi nell’infelicità di un matrimonio, ad affiancare la protagonista nel lento processo di scoperta delle carte, a indagare le ragioni profonde e le verità nascoste dietro una lunga serie di meschinità.
Non si tratta, va detto immediatamente, di un romanzo facile da leggere. È, invece, una lettura che lascia un segno perché impone di guardare in faccia i lati più perversi della relazione di coppia e dell'individuo, in una vera e propria discesa agli Inferi.

Il matrimonio tra Emma e Luca, dopo vent’anni di convivenza, si è trasformato; come accade a moltissime relazioni, l’amore, da conforto e rifugio, ha subìto una metamorfosi mostruosa che lo ha reso il contenitore ideale dove riversare il malessere e il disagio individuali.
Attraverso gli occhi di Emma, che dopo anni di fallimentare relazione continua a credere nella possibilità di recuperare il rapporto con il marito, siamo portati a riflettere su una verità che non è facile confessare: nell’irrisolto di ogni io, l’intimità con l’altro diventa a poco a poco il pretesto per tramutare chi ci sta di fronte nello specchio dei nostri malesseri; ecco che, con il tempo, il compagno di vita diviene il riflesso visibile del nostro lato oscuro e avere sotto gli occhi le proprie miserie ce lo rende insopportabile.
La domanda che pone il romanzo di Avati è, allora: può, questo processo, essere reversibile? Si può tornare a dipingere di meraviglia una relazione che ha toccato il livello più infimo?
A lui avevo permesso di calpestare la mia indole fiera, di deprimere la mia predisposizione alla coerenza, di addomesticare quella inclinazione ribelle che da sempre aveva distinto il mio carattere, di avvilire l’orgoglio in qualsiasi forma provasse a manifestarsi. (p. 25)
La persona che avevo amato non era mai esistita, se non nella mia testa. Non riconoscevo più in lui nessuna delle qualità che credevo avesse. La sua fragilità emotiva, una condizione che agli inizi mi aveva sedotta e che col tempo invece di risolversi si era ispessita, risucchiava vita da me, dall’unica persona che non si era sottratta a un lento salasso. (p. 46) 
Due sono i grandi temi attorno a cui ruota il romanzo, due temi centrali nell’esistenza e di portata così enorme da impedire una riflessione esaustiva.
Al centro, chiaramente, l’amore. Generazioni di poeti e scrittori hanno provato a interpretarlo e definirlo, l’amore sfugge a ogni classificazione e di fronte a esso siamo tutti, sempre, bambini, siamo tutti perenni scolari. Leggendo questo romanzo, ci si pongono domande sulla sua natura, si è invitati a una riflessione intima, che non può che dare risposte assolutamente individuali, perché l’amore, il sentimento universale per eccellenza, si declina nei miliardi di vissuti e approcci propri di ognuno.

Non sappiamo se l’amore è cura o anestetico, se deve, per definizione, essere “giusto”, se rappresenta un modo per sconfiggere il dolore o una bugia che ci aiuta a sfuggirgli, a fingere che questo non esista.
Colpisce una frase di Avati:
…essere innamorata ha a che fare con le proprie ferite. (p. 64)
È proprio così? Si impara ad amare secondo i nostri tormenti, sono i dolori che abbiamo vissuto a plasmare il nostro modo di voler bene?
È una riflessione che si impone al lettore: potrei rispondere affermativamente alla domanda sopra, ma temo che abbia a che fare con il mio proprio modo di vivere l’amore.
Il pregio di Avati sta proprio qui, nello spingere il lettore in una via di pensiero che conduce alle radici del proprio Io e che lo porta a una riflessione ampia che non ha valore universale, ma che ne possiede uno ancora più importante, quello individuale.

Il secondo tema centrale del romanzo è il rapporto madre-figlia e padre-figlia. Emma, la protagonista, ha vissuto direttamente le conseguenze del matrimonio difficile dei propri genitori, segnato da tradimenti e litigi.

Da un lato, porta su di sé le cicatrici di un rapporto, quello con il padre, irrisolto e prematuramente interrotto. Dall’altro, anche oggi da adulta, vive in maniera infantile quello con la madre:
Non volevo avere a che fare con la sua fragilità. Non dovrebbe accadere che un genitore manifesti ai figli la propria debolezza, mai, a nessuna età. È disumano rifiutare il labirinto emotivo di una madre? Forse lo è, ma io non conoscevo altro modo per proteggermi. (p. 103)
Questo rifiuto di evolvere nella relazione è dunque una costante di Emma, sia nei confronti dei genitori che in quelli del marito, e rappresenta il nocciolo significante del romanzo.
Ecco che, per crescere davvero, Emma dovrà muoversi in una duplice direzione: abbandonare la paura della verità e smettere di credere che l’infelicità familiare sia un fardello ereditario o una attitudine acquisita di cui è impossibile liberarsi.

Barbara Merendoni