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L'esordio di Lia Piano: ciò che rende la propria infanzia indimenticabile

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Planimetria di una famiglia felice
di Lia Piano
Bompiani, 2019

pp. 160
€ 15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Mio padre si sfilò il metro dalla tasca, e iniziò a misurare. Un mese dopo una mensola lunga 307 metri percorreva tutte le stanze, avvolgendo i muri come un nastro. Libri lungo il vano scale e in cucina, fughe di libri lungo corridoi, stanze vuote, gabinetti. La mensola si abbassava e alzava come un’onda: nei punti più bassi mia madre metteva quelli per me. Quando di notte la sentivo spostare le scatole di libri attraversavo tutta la casa in punta di piedi per andare a vedere. La maestra aveva spiegato che i libri erano stati un tempo alberi, che la cellulosa proviene dal legno. Anche questo non era del tutto vero, gli adulti la facevano sempre troppo semplice: i libri erano ancora alberi, e dove li posavi mettevano le radici. Se c’erano i libri significava che quella era casa. Finalmente ci eravamo fermati. (p. 48)
Chiunque abbia una passione per i libri, arrivato a questo punto della lettura, non può non fermarsi a immaginare. Immaginare questa mensola di legno che si snoda a perdita d’occhio lungo la casa, inoltrandosi nelle profondità, e sopra i libri di una famiglia che tutto ha di straordinario. Questo pezzo è così evocativo che, non a caso, le ultime righe vengono riportate anche nella quarta di copertina: per gli amanti della lettura casa è dove trovano spazio i propri libri.
Il testo d’esordio di Lia Piano è così: un colorato affresco di una famiglia fuori dal comune che, nonostante quanto riportato nella nota dell’autrice a pagina 6 – «le immagini sono tutte vere, ma fatti e personaggi sono frutto della fantasia» –, qualcosa deve aver preso da quella reale; e un dipinto ancor più vivace della casa di famiglia, «l’unico personaggio realmente esistito presente in queste pagine» (p. 6), un luogo già di per sé complesso e straordinario reso ancor più peculiare dagli occhi sognanti della protagonista, una bambina di sei anni appena.
Come ho scritto altrove la fanciullezza è un’epoca mitica, un luogo senza tempo in cui tutto sembra enorme e sublime. È plausibile allora che i ricordi contengano delle iperboli e che nessuna macchia di paura e negatività venga a sporcare la felicità di cui si parla già nel titolo. E tuttavia a mio avviso questa continua allegria, questa gioia che emerge da ogni pagina alla lunga inficiano la tensione narrativa che è, e deve sempre essere, alla base di ogni romanzo. Altrimenti accade ciò che succede in questo libro, ossia si ha a che fare con una serie di immagini – una per ogni capitolo – non necessariamente legate fra loro da un filo conduttore, attraverso le quali noi lettori scivoliamo senza soffermarci più di tanto perché, appunto, manca la tensione che fa da spinta propulsiva alla lettura.

Leggendo bene il testo ci si rende conto che non esiste una reale trama, a meno di non voler attribuire questo nome alla descrizione degli stati emotivi dei componenti della famiglia, o alla loro sempre maggior comprensione di una casa che va ampliandosi, costruendosi, riempiendosi di oggetti d’uso comune. Non credo che questo sia sufficiente però a far carburare una lettura che, intorno a pagina 100 – ossia ben oltre la metà del testo –, tende alla ripetizione e lascia l’impressione di non avere una direzione ben precisa.
Stessa cosa accade per i personaggi. Per quanto si possa dire che sia lo sguardo della bambina a stilizzare il tutto – ché l’essere bambini prevede la presenza di eventi mitici e insuperabili, sì, ma anche molto semplificati e ridotti ai minimi termini – ciò che ne risulta è un insieme di personaggi appiattiti e stilizzati: il padre architetto/ingegnere sognatore ma pragmatico, la madre premurosa e un po’ fuori di testa, il fratello maggiore attratto dall’adolescenza, quello minore legato a una balbuzie che lo limita e, dulcis in fundo, la governante che è sempre, costantemente connessa col mondo delle pulizie, che non fa altro che cucinare, spolverare e sfornare saggezza popolare nel suo strettissimo dialetto calabrese.
Lia Piano dimostra di avere un’ottima penna: la sua è una scrittura fresca e vivace, fin troppo spensierata a tratti. Ciò che manca, almeno da quanto si può leggere in questo testo d’esordio, è l’invenzione narrativa, quel tocco di genio che rende una trama, anche quella più sciatta, capace di destare attenzione. Ci sono romanzi che parlano di ragazzi che scappano di casa per poi tornarvi e altri in cui un tizio va da uno psicologo per raccontargli la propria vita: di per sé sono cose comuni, a tratti banali, eppure c’è in quelle storie qualcosa che attrae il lettore e gli fa venir voglia di proseguire la lettura. In Planimetria di una famiglia felice questo elemento purtroppo manca, ed è un peccato perché le carte per una buona scrittura ci sono.

David Valentini





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