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«Alla fine, io sono questo: un maschio intellettuale sentimentale meridionale»: Francesco Piccolo si misura con "l'animale" che ogni uomo porta dentro di sé

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L'animale che mi porto dentro
di Francesco Piccolo
Einaudi, 2018

pp. 208
€ 19,50 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


L'innamoramento e il dolore erano la vita individuale; l'erotismo era la vita collettiva, era totalmente legato alla comunità dei maschi che conoscevo. Ma la domanda che mi faccio ancora adesso, che mi faccio scrivendo questo libro è: il mio stereotipo e io come individuo eravamo davvero così diversi?
"Quando una donna mi chiede di bere un caffè insieme, io penso che sia sessualmente interessata a me e quindi le sono grato. Mi rendo disponibile? Certo, se lei appena mi incoraggia, io non posso dirle di no: le sono grato, perché si è accorta di me". Ricordo lo sgomento profondo, lo sdegno misto alla pietà che provai quando, anni fa, un uomo che avevo frequentato mi confessò - gioie del restare "amici" dopo essersi lasciati! - perché non riusciva a essere fedele. Lì per lì non riuscii a replicare, ancora presa dal sollievo di essermi strappata da una simile prospettiva di infelicità annunciata. Da allora, quando è capitato di ripensare alle sue parole, ho visto dettagli che non sono attenuanti, ma segni di infinita fragilità: la patologica ricerca di conferme nel sesso, la capacità di trasformarsi in istrione al minimo riconoscimento dall'esterno, la bramosia di certi sguardi lanciati a qualsiasi donna minimamente avvenente o, meglio, minimamente disponibile al confronto. Non mi sono mai chiesta cosa ha portato a tanto quest'uomo, dall'apparenza rispettabile, dalla posizione lavorativa invidiabile e impeccabile nei rapporti interpersonali. Perché faceva male pensare di "esserci cascata" o semplicemente perché non era più, fortunatamente, affar mio. 
Poi ho letto L'animale che mi porto dentro di Francesco Piccolo e qualcosa è riemerso: incredibile come un libro possa rimestare nel nostro passato e aiutarci a rileggere aspetti che pensavamo di non potere (e forse non volere) mai comprendere a fondo! Sì, perché l'io narrante del romanzo, almeno formalmente prova di autofiction come spesso in Piccolo, assomiglia molto a quell'uomo, ma si spiega meglio, apre al lettore il suo mondo di uomo tormentato, preda involontaria dell'"animale che si porta dentro", che lo porta a cercare di sedurre più o meno serialmente, a provare rabbia e a diventare aggressivo quando viene contraddetto. È un animale che chiede di adattarsi con i propri comportamenti per entrare a "far parte del branco" dei maschi, di esibire prove di virilità (reali o solo raccontate) per conquistare l'ammirazione degli altri compagni di scuola o per riuscire a conquistare il padre violento e sempre restio a qualsiasi manifestazione di affetto.
Ma è anche l'animale contro cui il protagonista Francesco prova a opporsi con l'aiuto della cultura, sebbene sappia che la forza dell'animalità è più forte del raziocinio: si può tenere a bada l'impulso irrazionale imponendosi self-control, distraendosi, ma il pensiero, lasciato libero, torna sempre a dare più importanza al sesso, ad esempio, rispetto ai sentimenti.
La soluzione è quella specie di convivenza tra la persona che vuoi essere e la persona che la tua comunità di maschi ti ha chiesto di essere.
Dei sentimenti, il piccolo Francesco arriverà ben presto a diffidare: non potrà certamente mostrare quanto ci è stato male per l'addio di Federica dopo una breve, platonica e infantile relazione in seconda media; le lacrime sono qualcosa di cui vergognarsi, molto meglio mostrare che poco importa; fa niente se dentro di sé c'è una sofferenza atroce, Francesco cercherà sempre e comunque un modo per superare l'ostacolo o, semplicemente, evitarlo. 
È quello che gli è stato insegnato in famiglia, ma anche nei primi libri che - suo malgrado, svogliatamente e senza passione - ha letto nei primi anni della sua vita. Almeno finché ha scoperto Sandokan: ma non è forse anche quello un modello di «individuo maschile [...] al servizio della comunità maschile»? 
«I valori virili di un singolo devono servire alla virilità del gruppo [...]. E tutto ciò corrisponde perfettamente al desiderio di noi ragazzi: volevamo stare in un gruppo di amici, volevamo stare in una squadra, essere protetti da una piccola comunità. La virilità è il mezzo migliore con cui ottenere tutto questo, perché è il minimo comune denominatore per la somiglianza».
Ed ecco dunque il gusto di andare a spiare le svedesi con i loro corpi nudi e libertini in vacanza nel Villaggio Svedese: il gusto non era per l'atto in sé, ma per il fatto di andare insieme a tanti altri maschi, animati dallo stesso desiderio sessuale. Così anche i fumetti pornografici, i film proibiti ai minori di 14 anni, altro non erano che l'ennesima dimostrazione di un sesso distorto, sì, deformante la realtà, ma che avrebbe tenuto unito il gruppo di coetanei. Che dire allora delle prime conquiste? Anche quelle andavano in qualche modo "esibite" per l'approvazione del branco, molto più importante che per la scoperta del piacere sessuale in sé. Il sesso è, infatti, soprattutto una «protezione»; pensarvi continuamente garantiva all'adolescente Francesco di sfuggire ai problemi della quotidianità («Non mi faceva soffrire il professore alle medie, mio padre che mi picchiava, il fatto di non potere andare a basket, nulla di tutto quello che mi era successo»). 
L'insegnamento tratto da tanti film visti, dall'immaginario collettivo e dagli anni dell'adolescenza, che ci vengono raccontati per episodi ben rappresentativi e senza veli, è un po' questo: «sì, sono sentimentale, ma il sentimentalismo serve per scopare. È il mezzo migliore per far sì che l'impossibile si possa trasformare in possibile». Ed ecco allora spiegata la sfilata di storie amorose con cui Francesco cerca di confermare la propria virilità, con risultati alterni. E l'autore non rinuncia a qualche episodio che fa rizzare i capelli in piedi alle donne in lettura, come quando dopo il suo primo rapporto sessuale, Francesco si accorge di aver eiaculato nella giovanissima compagna e davanti al panico di lei non può risparmiarsi di gioire dentro di sé per aver finalmente perso la verginità. 
Ma non è una apologia di sé stesso, quella che vuole mettere in atto il narratore: anzi, analizza criticamente e senza veli (o almeno così sembra) i difetti contro cui lotta almeno in parte, pur restando fondamentalmente schiavo, anche a cinquant'anni, delle stesse pulsioni: 
Leggi e vedo film e ascolto canzoni perché la mia vita non mi basta, per costruire un'identità devo usare altri strumenti, più che posso. E ho cominciato a scrivere per affermare una diversità: dagli altri maschi, ma soprattutto da quel me stesso che è come gli altri maschi. E da mio padre.
Un percorso in salita, pieno di cadute - talvolta anche autocompiaciute, questo sembra al lettore (o forse ancor più alla lettrice) - da cui le tante letture non riusciranno a riscattare completamente Francesco. Ma non c'è niente di risolto in lui, ed è proprio questo mostrarsi debole, insicuro, fragile, in perenne conflitto che aggiunge valore al libro, che resta senza dubbio una lettura scomoda, ma detto nel senso migliore del termine: le letture in cui ci si adagia, quelle che compiacciono le aspettative del lettore, passano indenni e lasciano altrettanto velocemente la mente del lettore. L'animale che mi porto dentro, invece, è a tratti spassoso e ironico e a tratti indigesto con quella intermittenza pericolosa che porta ora a simpatizzare per il protagonista ora a detestarlo, ma a conoscere più a fondo quel che si annida dietro a certi bisogni altrimenti insondabili. E l'etichetta dell'autofiction fa il resto, ovvero stimola la curiosità più morbosa che ogni lettore - col suo "animale che si porta dentro" - da qualche parte, inconsciamente, nasconde. 

GMGhioni