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Col sangue bollente che pompa furioso nelle vene fino alla fine: "L'Argentino" di Ivano Porpora

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L'Argentino
di Ivano Porpora
Marsilio, 2018

pp. 168
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Un paese fantasma venera i propri fantasmi e si affezione al clangore notturno delle catene; e chi viene a scacciarli si farà dei nemici. (p. 32)
Un po' lo sapevo, che a leggere di un paese minuscolo quanto San Cristóbal de Cuellar, delle sue due strade assolate, desertiche, percorse da centosessanta abitanti nel 1958 - lo sapevo, che mi sarei sognata. E infatti, puntuale, dopo aver letto metà del romanzo, breve ma particolarmente intenso, come ho chiuso gli occhi mi sono ritrovata in una atmosfera da western, vestita da cowboy - e questo è buffo, per chi mi conosce, ma poco importa qui -, a fumare una pipa sotto una veranda spazzata dal vento caldo della Meseta settentrionale. Poi, il putiferio: sono arrivati, anzi, si sono stagliati nel mio sogno i personaggi che hanno riempito di contrasti il terzo romanzo di Ivano Porpora. Ho visto l'Argentino - senza nome, dal passato nascosto come ogni straniero che ben si rispetti in un western, e d'altra parte «tutti poterono dire: "La prima volta che lo vidi, non lo vidi in faccia"» -, lui che ha subito diviso le donne del paese tra amori, odi, desideri più o meno esibiti.
«Arrivò in città che aveva ventotto anni, le mani sporche e il naso chiuso, la fronte appena rigonfia per una botta. Uno zaino in pelle abbastanza capiente gli macchiava di sudore la schiena» (p. 28): come ve lo siete immaginato?
Il mio Argentino, quello che mi è apparso in sogno, assomigliava a un Franco Nero pressappoco come nella foto, con un passato indefinito su cui ogni lettore si troverà a fantasticare. Sì, perché nel romanzo noi continuiamo a seguire l'Argentino attraverso gli occhi di un ragazzino, Fernando (detto Veranito o Verano), o, meglio ancora, attraverso i ricordi di un Fernando ormai anziano, che rimastica con gusto l'incontro con questo straordinario ed enigmatico straniero, anni prima. Il giovane Fernando, affascinato dal senso di giustizia tutto suo, dall'accento spagnolo imperfetto e dal mistero che accompagna sempre l'Argentino (che, poi, argentino non era...), segue l'uomo e spesso intrattiene con lui conversazioni che però non rivelano granché della sua vita. Ed è forse per questo che in paese nasce un sospetto: che sia lui, proprio lui, il portatore di una sorta di Apocalisse, che si scatenerebbe in paese se qualcuno aprisse una fantomatica porta, associata a una maledizione leggendaria (forse lanciata da Cervantes?). 

Se vi appare un po' inverosimile il tutto, non temete, perché fin dalle prime pagine, Ivano Porpora ci avvince con temi propri della letteratura sudamericana, impasta questa trama - ben più complessa di quanto sia giusto riassumere qui - con temi apotropaici: vita e morte, desiderio fisico e sesso consumato nella calura spagnola, paura del diverso che si fa vendetta e odio. L'Argentino, infatti, viene preso di mira da Rosario, ragazzo tanto giovane quanto perfido: e noi lettori non facciamo che aspettare il classico duello western. Ma per Porpora c'è ben altro in gioco: una lotta atavica tra Bene e Male, ben consci che però non esistono più personaggi che appartengono pienamente all'una o all'altra categoria. E sono vaste campiture ora nervose, ora goderecce e concretamente dense, quelle che dipinge Porpora, attingendo a un po' di realismo magico (ma senza mai scimmiottare i modelli), all'espressionismo che sfocia in paragrafi estremamente concreti, fino alla liricità. Ed è questa mescolanza imprevedibile a creare accostamenti inattesi e, spesso, indelebili nella nostra memoria. Citare un singolo paragrafo di esempio non basta, perché tutto è incastonato in un gioco abile di equilibri e forti e spiazzanti colpi di scena: il lettore che si accosterà a questo romanzo - che non si può ricondurre a un solo genere - proverà la forza di sentimenti estremi, contrastanti e al limite dell'umano. 

GMGhioni