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Quel che resta del giorno: il pericolo di rinunciare ad amare

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Quel che resta del giorno
di Kazuo Ishiguro
Einaudi, 2016

Traduzione di Maria Antonietta Saracino
1° Edizione: 1989

pp. 271
€ 12 (cartaceo)


Maggiordomi di minor levatura sono pronti, alla minima provocazione, a metter da parte la loro figura professionale per lasciare emergere la dimensione privata. Per simili personaggi, fare il maggiordomo è come recitare in una pantomima; basta una piccola spinta, ed ecco che la facciata cade scoprendo l’attore che c’è sotto. I grandi maggiordomi sono grandi proprio per la capacità che hanno di vivere all’interno del loro ruolo professionale e di viverci fino in fondo. (pp. 49-50)
In Quel che resta del giorno romanzo del 1989 di Kazuo Ishiguro, Premio Nobel per la Letteratura 2017, Mr Stevens è un distinto signore di mezza età, maggiordomo in una prestigiosa casata inglese, per decenni al servizio dell’ambiguo Lord Darlington, intellettuale e politico caduto in disgrazia durante la Seconda Guerra Mondiale, per le sue idee filotedesche.
Scomparso Darlington, Mr Stevens, che ha sacrificato l’intera sua vita al ruolo che gli è stato affidato, si trova al servizio di un giovane americano, il quale gli concede qualche giorno di vacanza per andare a trovare Miss Kenton, ex governante di Lord Darlington, trasferitasi da circa vent’anni in Cornovaglia, dove vive con marito e figli.
Mr Stevens e Miss Kenton hanno condiviso anni di lavoro e amicizia e una lettera della donna fa credere a Stevens che essa sia pronta a tornare a servizio.
Il viaggio che lo porterà ad attraversare l’Inghilterra è per il maggiordomo occasione irripetibile per ripercorrere i ricordi di una vita, andando alla ricerca di quel significato ultimo che ogni essere umano tenta di dare alla propria esistenza.
La citazione usata come incipit racchiude il senso profondo del concetto di Dignità per Stevens: una vita dignitosa è quella di un uomo che si identifica fino in fondo con il ruolo che ha assunto, che abbraccia il suo lavoro finendo per dimenticare se stesso e agire in esclusiva conformità con i dettami della propria professione.
In definitiva, per Mr Stevens (di cui non conosceremo mai, significativamente, il nome di battesimo) la Dignità è mettere da parte i moti spontanei dell’anima, i propri desideri, persino l’affetto supremo per un padre, con l’unico scopo di essere un Grande Maggiordomo.
Un maggiordomo di un qualche valore deve vedersi come appartenere al ruolo che ricopre, totalmente e completamente; non lo si deve veder mettere da parte quel ruolo ad un certo momento, per tornare ad indossarlo di nuovo il momento successivo, quasi non fosse niente altro che un costume da pantomima. (p. 187)
Nel romanzo, in cui il lettore osserva gli eventi attraverso le lenti (distorte) del protagonista, l’insistenza ripetuta sul concetto di pantomima applicato alla realtà provoca un rovesciamento di senso per cui la vita, l’individuo nella sua dimensione privata e intima, sono elementi di irrealtà, trascurabili, auspicabilmente sopprimibili, mentre la professione, il Ruolo, divengono farsa reale, l’unica, rispettabile, esistenza da vivere.
In questo rovesciamento di finzione e realtà, Stevens attraversa i decenni soffocando i sentimenti, per primo l’amore per la dolce e determinata Miss Kenton, presentando al lettore questo sacrificio come suprema prova del proprio valore.
Il disperato romanzo di Ishiguro, in cui si contrappongono idealmente due visioni dell’esistenza tipiche delle due culture d’appartenenza dell’autore (la compassata imperturbabilità inglese e l’armonica filosofia giapponese),  è un memento dei pericoli di abbracciare un ideale che soffochi il nostro Io. A dispetto dell’esaltazione collettiva dell’eroe, che sacrifica se stesso in nome di una causa maggiore (…ma si può considerare tale una professione?), l’autore anglo nipponico ci presenta, spietatamente, il rischio che si corre ignorando il richiamo di un amore semplice, spontaneo, normale.
Al lettore, che tifa costantemente per un ricongiungimento e una disvelazione romantica, non resta che provare tristezza, e perfino orrore, di fronte al lento decadimento di un uomo che ha rinunciato ad amare, che ha dimenticato di vivere, che ha ucciso se stesso.
 Ha scelto un certo percorso, nella sua vita, che si è rivelato un percorso sbagliato; ma era quello che aveva scelto, così almeno può dire. Perché io, invece, non posso nemmeno asserire questo. Vedete, io mi sono fidato. (…) Non posso nemmeno affermare di aver commesso i miei propri errori. E davvero – uno deve chiedersi – quale dignità vi è mai in questo? (p. 268)

Barbara Merendoni