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"Caro Leggitore, se tu se' una fina barba...": Giuseppe Valeriano Vannetti e la peluria sul viso maschile

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Barbalogia.
Ragionamento intorno alla barba
di Giuseppe Valeriano Vannetti
a cura di Manlio Della Serra
prefazione di Christopher Oldstone-Moore
postfazione di Alex Pietrogiacomi
e con un racconto inedito di Claudio Marinaccio

Armillaria, 2017
pp. 181

Cartaceo euro 12,00
E-book euro 4,99 

È un fatto noto – se non, per certi versi, addirittura notorio – che la barba abbia vissuto negli ultimi anni un vero e proprio revival. Se ne parla e se ne scrive in modo più o meno ozioso, riconducendo il più delle volte e in parti uguali la sua sempre più diffusa presenza a una rinnovata e manifesta vanità maschile o, più corrivamente, a una più furba e malcelata pigrizia (che a sua volta va a nascondersi proprio dietro il dito della tendenza del momento). Sospettereste mai che quella che oggi si definirebbe profondissima chiacchiera di costume sia stata invece considerata, in pieno Settecento (e dunque in pieno Illuminismo), una speculazione colta, argomentata e come tale meritevole di stampa e diffusione? Perché proprio questo è quello che fece Giuseppe Valeriano Vannetti («Cav. Del S.R.L. e Signore di Villanuova, Roveretano, Accademico Agiato, ed Errante») dedicandosi alla stesura del suo Barbalogia, un dotto e sfizioso Ragionamento intorno alla barba appena ripubblicato dalla casa editrice Armillaria in una nuova edizione critica, la quale, a dispetto dei decenni trascorsi (e delle molte barbe cresciute e tagliate nel frattempo) ancora può dire molto agli uomini del presente, specialmente agli hipster più inconsapevoli e ai titolari di barber-shop più alla moda (i fedeli e talora rimpianti “barbieri” di una volta).

Nel singolare trattatello, rivolto all’altrettanto «Curioso Leggitore», Vannetti ripercorre mode e consuetudini della barba attraverso i secoli e i popoli, raccontando come la sua presenza o assenza sia stata sempre e principalmente un elemento sociale e culturale, e dunque legata di volta in volta ai contesti geografici, alle confessioni religiose, alle manifestazioni del potere politico e militare, alle rivendicazioni di particolari status dell’individuo in seno al consorzio civile (dall’“abbandono” filosofico all’espressione del lutto). Nella lunga carrellata di fatti e personaggi (il tiranno Dionigi che si faceva radere dalle figlie per paura di essere assassinato dal suo barbiere, Alessandro Magno che riteneva l'assenza di barba sinonimo di un eroismo "giovanilista" prossimo alla divinità, e così via), non mancano nemmeno alcuni curiosi riferimenti alla relazione tra gentil sesso e peluria del viso, come l’autore prontamente si prodiga a specificare risalendo all’epoca classica:
«appo i Romani femmine v’avea pure, che il mestier del barbiere esercitavano: non parlo di conciatrici di capo Ornatrices chiamate, ma di quelle, che propriamente erano Barbieresse, e dicevansi Tonstrices, e Tonstriculae».
E se è vero, come recita l’adagio, che “donna barbuta – ma non era baffuta? – sempre piaciuta”, Vannetti non manca nemmeno di dare notizia dell’esistenza storicamente accertata di «qualche femmina barbucina», «donne con barba al mento come gli uomini» e «donne per la barba memorabili» (al lettore il gusto di scoprirne le identità e gli irsuti profili).

Come si comprende dal breve passo sopra citato, l’italiano e lo stile del trattato sono quelli della prosa erudita settecentesca, con abbondanza di citazioni di brani in latino e riferimenti a una pluralità di autori (soprattutto grandi nomi della storiografia e della letteratura classica), in corpo di testo come anche in nota. E sebbene le traduzioni siano sempre presenti – esito di un accurato lavoro di edizione, volto, insieme ad alcuni altri accorgimenti, a rendere più scorrevole e comprensibile il testo – ciò tende a rallentare inevitabilmente la lettura, dal momento che richiede di ritornare più volte sui vari passaggi per una migliore comprensione del tutto. Eppure, proprio (ma non solo) per questo, il Ragionamento intorno alla barba di Vannetti si conferma quale testo prezioso, da centellinare con tutta calma, pena la perdita dei molti e sfiziosi dettagli e il mancato apprezzamento dei dati storici e degli aneddoti presenti quasi in ogni capitoletto.

Chiudono il volume – in un italiano che, con un salto di oltre due secoli, si fa di nuovo (e anche con un certo sollievo) più “familiare” – l’intelligente e ampiamente condivisibile postfazione di Alex PietrogiacomiBarbologi ma non barbosi! – e uno scritto inedito di Claudio MarinaccioUna barba lunga un mese: riflessione, quella del primo, sulla noia (quasi tutta contemporanea) che può insediarsi in ogni culto fanatico della peluria sul volto maschile; racconto d’invenzione, quello del secondo, a cavallo tra l’horror e il distopico, in cui la barba di un padre, che da alcune settimane è impossibilitato a radersi per inquietanti cause di forza maggiore, misura il tempo che separa lui e il figlioletto da una morte atroce o da una salvezza ancora possibile. Ad ogni modo, richiuso il libricino, non si potranno che sottoscrivere le parole di Christopher Oldstone-Moore, autore dell’utile prefazione (Lezioni di storia della barba):
«la storia della barba ci avverte dell’importanza sociale dei peli sul volto sia nel passato che nel presente. Come in passato, la condizione dei nostri tempi è visibile sui volti degli uomini. La sperimentazione nelle acconciature di oggi riflette una rinegoziazione attiva di cosa ci si aspetta dagli uomini, e cosa gli uomini vogliono per se stessi per quanto concerne l’autonomia personale, le regole sociali, l’identità religiosa, i ruoli di genere e l’attrazione sessuale».

Cecilia Mariani