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#CriticaNera - "Vedo le cose con amara lucidità". Intervista con Massimo Fagnoni

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Nel febbraio 2016, il mio editore, Carlo Frilli, mi mise in mano un libro e mi disse: “Leggiti Fagnoni, ne vale la pena”. Tornai a casa, a Genova, e poi a Barcellona, con curiosità e dubbi. Il libro in questione era Bologna non c’è più e l’autore, Massimo Fagnoni, per me era un perfetto sconosciuto. La lettura di quel libro si riversò in una delle recensioni più liberatorie che abbia mai scritto, tanto liberatoria che, ogni tanto, Massimo mi ringrazia ancora per le parole scritte quel giorno. Nulla da ringraziare, ripeto sempre, se c’è da parlar bene si parla bene, se c’è da stroncare, si stronca. Con uguale obiettività e rispetto. Da quella recensione ne nacque un lungo carteggio, tra e-mail tradizionali e messaggi su Facebook, un epistolario virtuale abbastanza corposo e ricco, più per merito di Massimo che mio. Se tra cinquanta o cento anni ci sarà qualche filologo che si interessi alla sua opera e trovi questa corrispondenza, non lo invidio. Frammentata e liquida come ogni corrispondenza di questo secolo XXI, non sarà facile per il filologo del futuro ricostruirla.

Da quel Bologna non c’è più ho continuato a seguire l’opera di Massimo Fagnoni. Letto Il giallo di Caserme Rosse (di cui non parlo perché pubblicato dal mio editore, quindi in conflitto di interessi) e divorato Il ghiaccio e la memoria, uscito per i tipi di Minerva quest’anno. Un giallo atipico, dalle tinte chiaramente hardboiled, anche se inzuppate della tradizione nera nostrana. Non vi è un caso se non a partire dalla seconda metà libro e la narrazione scorre sul filo di due piani temporali distanti oltre vent’anni: gli anni ‘80 del XX secolo e i primi anni 2000. Come in Bologna non c’è più, la società del capoluogo emiliano viene sezionata e studiata nelle zone più buie, senza però fare luce sulle ombre e, anzi, lasciando alla soluzione del caso un retrogusto amaro che sa di morte, delusione e disincanto. Forse il disincanto è la cifra di Il ghiaccio e la memoria, un disincanto che crea uno scarto con la serie Trebbi (Il silenzio della bassa, Bologna non c’è più, Il giallo di Caserme Rosse) e dà a Fagnoni un posto preciso nell’affollata narrativa di genere italiana. Non è un caso, quindi, e non deve sorprendere, che lo scrittore bolognese sarà presente al Premio Scerbanenco 2017 con due titoli: Il ghiaccio e la memoria, appunto, e Il giallo di Caserme Rosse.



DOMANDA: Il ghiaccio e la memoria si divide tra due momenti storici precisi: anni ‘80 del XX secolo da una parte e fine anni ‘10 del XXI dall’altra. File rouge è il protagonista, Matteo Veronesi, ma anche l’Italia che non sembra essere cambiata molto nei trent’anni che separano i due momenti narrativi. Oppure è cambiata a tal punto da essere tornata uguale a come era…

RISPOSTA: In realtà sono convinto che il cambiamento sia avvenuto, inevitabile, ma non determinato da noi, piuttosto dai flussi migratori, dalle crisi globali. L’Italia rimane un paese a diverse velocità, a seconda della regione, unica cosa certa è che rimane un paese diviso e zeppo di contraddizioni.

D: Contraddizioni che nei tuoi romanzi in parte emergono. In Il ghiaccio e la memoria Matteo Veronesi è un personaggio contraddittorio, mentre Federico, l’amico che muore sul Bianco, è più un ragazzo tutto d’un pezzo. Oppure le contraddizioni della tua città, Bologna: che è di sinistra, ma a volte sembra fare cose di destra.

R: Federico è nella finzione romanzesca il ricordo di come davvero appariva colui che ispira il personaggio, davvero era un esempio di coerenza, un capo, senza volerlo essere, un pacifista mentre tutto intorno a noi si inneggiava alla lotta armata, poi chissà come si sarebbe evoluta la sua personalità.
Bologna ha sempre avuto questo doppio volto, città progressista con i suoi affitti in nero, sede di tanta cooperazione dove i soci lavoratori hanno stipendi da fame, e mi fermo qui.
Non esiste nel nostro Paese la perfezione, nemmeno a sinistra e la nostra sinistra oggi si chiama PD, ma anche negli anni 80 aveva i suoi lati oscuri, solo che allora io avevo la fede, adesso vedo le cose con amara lucidità.

D: In questo romanzo giochi molto con l’elemento autobiografico. È evidente che nella prima parte siamo nella Bologna dei tuoi 20 anni e nella seconda in quella della tua età adulta. Presti i tuoi occhi a Matteo Veronesi per vedere e interpretare la realtà che lo circonda. Tuttavia, ti smarchi dall’autobiografia e lasci il lettore a metà. Quanto di te c’è in Il ghiaccio e la memoria?

R: Il romanzo nasce da un’esigenza esistenziale precisa, rendere omaggio a due amici congelati nel tempo e nello spazio della loro eterna giovinezza. Di me c’è sicuramente il rimpianto delle occasioni perdute, il desiderio di una riconciliazione con parte del mio passato.

D: Ecco, cosa pensi del passato e della sua relazione con il presente? Shakespeare diceva che il presente è il futuro del passato, se non sbaglio. Il passato è fermo, ma si presta a molteplici interpretazioni. Da scrittore, come lo manipoli, quanto inventi?

R: Il passato è per me una dannata tentazione, cerco di svelarlo nei suoi aspetti realistici, ma alla fine sono costretto a manipolarlo, perché il passato è insidioso, i più grossolani errori li ho fatti scrivendo del passato, ma per me rimane una tentazione fortissima camminare di nuovo nelle strade di una Bologna che non esiste più.

D: A un certo punto prendi chiaramente spunto da un evento di cronaca bolognese durante la giunta Cofferati: lo sgombero dei campi ROM. E la figura di Migliorati sembra ricalcata su quella dell’ex sindaco di Bologna. È stato difficile equilibrare realtà e finzione? Credi di aver raggiunto un equilibrio?

R: Cofferati ha rappresentato un modello di gestione della cosa pubblica sicuramente diverso e non esprimo giudizi, parte del profilo romanzesco è ricalcato su di lui, ma anche sul suo successore che ebbe vita breve, credo di avere raggiunto un equilibrio accettabile.

D: Anche in questo romanzo affronti questioni politiche. Come in Bologna non c’è più riesci a rendere evidenti le continuità tra epoche diverse: cambia la forma, ma la sostanza rimane la stessa?

R: Considera che Il ghiaccio e la memoria l’ho scritto quando ancora non esisteva Trebbi, sono due modi diversi di interpretare la realtà storica e politica di una città, mi stupisco ancora delle contraddizioni bolognesi, e credo sia normale per un ex comunista che credeva ciecamente nell’idea di città perfetta.

D: Un romanzo, quindi, con un tempo di gestazione lungo, lo dichiari tu stesso nella nota finale. Quanto dell’idea originale è rimasto e come quello che hai scritto in questi anni ha finito per influenzare la scrittura di questo?

R: Sono due percorsi paralleli, considera che i romanzi cosiddetti seriali come quelli di Trebbi partono dal personaggio principale che diventa il fulcro della messa in scena, anche se non sempre è il protagonista colui che conduce per mano il lettore nello svelamento della trama. Il ghiaccio e la memoria è come una capsula temporale che ha attraversato il mio scrivere senza farsi influenzare, avevo un obiettivo preciso, parlare dei miei amici a costruirci intorno una storia plausibile. Quando hai una forte motivazione nulla può condizionarti

D: Matteo Veronesi è un bel personaggio perché è un ragazzo e un uomo tormentato. Ha un’evoluzione precisa perché da giovane ribelle e rampollo di una famiglia borghese, da simpatizzante della sinistra extra parlamentare diviene, poi, commissario della Digos. Un passo significativo è il primo incontro con il suo capo alla sezione politica della Polizia di Stato. Tuttavia, non abdica mai del tutto ai suoi ideali e principi. Cosa volevi dimostrare con questo? Che alla fine ci sono istanze che per quanto in “direzione ostinata e contraria” possono trovare uno sfogo istituzionale? Che la polizia, e la Digos, non sono questo monolite oscuro che molta gente pensa che sia?

R: Ho lavorato per anni a fianco di colleghi delle diverse forze dell’ordine. Le cose e le persone sono radicalmente cambiate, te lo dice uno che tirava i san pietrini in piazza.
Indossare una divisa oggi è per molti una scelta non solo dettata da motivi economici e sociali; c’è un livello di scolarizzazione oggi che era impensabile solo trent’anni fa. Poi il lato oscuro è in ognuno di noi, credo sia tempo di cominciare ad avere fiducia in chi ha il difficile ruolo di tutore dell’ordine, e pensare che chi hai davanti è sì un poliziotto ma prima di tutto un essere umano.

D: È quasi pasoliniana questa tua affermazione. Lui da comunista vedeva nel poliziotto un operaio, un suo ‘pari’ alla fine. Non vedeva lo Stato.

R: Conosco il famoso intervento di Pasolini, la realtà è diversa da qualsiasi idea di contrapposizione; spesso, specialmente fra i giovani, è il pregiudizio a farla da padrone, si guarda solo la divisa, lo so perché sono stato giovane anch'io. In realtà credo che le cose siano profondamente cambiate in Italia, poi ci sono sempre i casi estremi e le situazioni esplosive, come Genova, ma stiamo parlando del 2001.

D: Ritorniamo su Matteo: non è propriamente un poliziotto buono. Diciamo che non ci pensa due volte ad usare le maniere forti. Ma, come dicevo prima, è un uomo tormentato e, soprattutto, solo, addirittura “troppo vecchio per avere un altro rimpianto da caricarsi sulle spalle”. È un personaggio noir per eccellenza. Secondo te è questo un elemento cardine e necessario per questo genere di narrazioni? Te lo chiedo perché il tuo Trebbi è, in fin dei conti, abbastanza diverso.


R: C’è spazio per tutti nel nero mediterraneo, come lo definisco io, anche i tuoi personaggi sembrano dichiararlo, credo che la cosa importante da ricercare sia l’originalità, più che la conservazione della tradizione, pensa allo Schiavone di Manzini e hai già capito cosa intendo.

D: Nero mediterraneo. Ecco mi pare interessante che tu usi l’italiano al posto del francese noir. Tuttavia, non ti sembra limitante un’etichetta basata unicamente su un criterio geografico? Personalmente, preferisco parlare di ‘cronache del disincanto’, e Il ghiaccio e la memoria rientrerebbe in questo genere pienamente. Ci tengo a precisare che non è solo questione di categorie, qui ci giochiamo un po’ di più credo.

R: Basta usare noir come definizione di genere, noi non siamo secondi a nessuno, sicuramente non ai francesi, e te lo dice uno che adora Simenon. Credo che tu abbia ragione per un verso, non si può riassumere tutto con una definizione geografica, molto di ciò che scrivo si ispira alla narrativa di genere americana, partendo proprio dall’hardboiled che ha rappresentato la mia iniziazione giovanile al genere nero: le emozioni provate in gioventù leggendo soprattutto Chandler dovevo immaginare che avrebbero influenzato la mia vita. È vero anche che scrivendo nero non parlo solo di nero ma anche di una visione della vita che sicuramente ha a che fare con il disincanto, ma sono attributi che vanno di pari passo.
L’amarezza che trovi nel Lungo addio ha una potenza e una concretezza senza tempo, in parte ha sicuramente influenzato il mio modo di pensare la scrittura di genere.

D: A pagina 57, descrivendo le inquietudini politiche del giovane Matteo scrivi: “Credevano di essere destinati a una fine tragica e gloriosa, tutta dedita al riscatto delle masse e alla rivoluzione”. Ma poi, le cose andarono diversamente, non solo per il protagonista, ma tutti i suoi amici dell’epoca che svaniscono in un presente narrativo anonimo e ininfluente. Tutti tranne Federico, che muore in quel 1985. L’assenza di Federico nella seconda parte si trasforma in un silenzio ingombrante che liberi solo nel finale. Accanto a questa figura, vi è quella della figlia di Veronesi e quella di Bianca, la nipote di Federico. Ecco questo trittico di personaggi, che nel protagonista crea un filo tra passato, presente e futuro lascia aperta una speranza di salvezza.

R: La speranza è sicuramente nelle nuove generazioni, ma non è una speranza salvifica, soprattutto intellettuale. I giovani sono cresciuti con strumenti che per noi erano impensabili, allora solo sogni fantascientifici e ancora muteranno, cambiano le prospettive e forse un nuovo corso di pensiero nascerà dal progresso tecnologico, un atteggiamento esistenziale che per noi non era neanche ipotizzabile.

D: Questo però è un po’ vero per tutte le generazioni…
R: Forse è vero, ma se analizziamo la realtà, solo negli anni 80 era pura fantascienza pensare ai telefoni cellulari, adesso la comunicazione passa soprattutto dalla rete e da strumenti elettronici, cellulari, tablet, pc, xbox, etc. Tu guardati intorno, milioni di individui che interagiscono con il proprio strumento di comunicazione con il mondo, questo approccio di rapporto con la realtà è una novità assoluta rispetto alle generazioni passate.

D: In Il ghiaccio e la memoria il lettore si confronta anche con una nuova forza di polizia, la municipale. Il ghisa, come lo chiamano a Milano, di solito lo si pensa relegato a far multe o a dirigere il traffico. Tu lo fai partecipare in una task force con la Digos. Il mistero si svela presto: tu lavori per la polizia municipale di Bologna. Ma a differenza di altri autori “sbirri” o magistrati i tuoi romanzi, e questo conferma il trend, non sono infarciti di procedimenti e burocrazia. Come dialogano il poliziotto e lo scrittore?

R: Alcuni mi criticano perché dicono che non sono abbastanza tecnico, ma io non sono un poliziotto, e scrivo anche per sfuggire ai legacci faticosi e noiosi delle procedure, il nero deve essere creativo e deve sorprendere anche se a volte il rischio è di utilizzare procedimenti fantasiosi; poi a parte tutto, vogliamo soffermarci davvero sulle sopraffine tecniche investigative italiane?

D: Ma certamente no! Ritorniamo, correndo, a Matteo Veronesi e questa è una domanda da scrittore a scrittore, perché una cosa che mi ha colpito è che questo personaggio è l’unico a esistere in due dimensioni temporali. Nel 1985 e nel 2009. Tuttavia, il lettore ha l’impressione di essere di fronte a due personaggi distinti, e forse lo sono perché in quei 24 anni di buco, in cui solo tu sai nei dettagli cosa è successo, il ragazzo si fa uomo cambiando e maturando. L’evento che decreta l’inizio del cammino verso l’età adulta sembra essere, tra l’altro, la morte di Federico, il suo migliore amico. L’evoluzione ha una sua coerenza e viene da pensare che l’intervallo tra il 1985 e il 2009 tu l’abbia riempito con qualche dettaglio in più di quelli che racconti al lettore…

R: Scrivendo in seguito romanzi con salti temporali mi sono posto il problema dei cambiamenti; in realtà se ci pensi l’arco temporale di vita dell’uomo medio è davvero brevissimo, dal momento in cui prendi coscienza del mondo circostante al momento in cui ti ritrovi a fare bilanci il passo è breve. Io continuo ad ascoltare la musica degli anni ‘80 e mi sembra ieri quando la ballavo, eppure sono quasi un vecchio. I dettagli che non racconto al lettore sono soprattutto il tempo perduto a fare cose spesso poco interessanti pensando che avrei vissuto un’eterna giovinezza, ora so che mi sbagliavo.

D: Come canta De Gregori in Bufalo Bill: «avevo pochi anni e vent’anni sembran pochi/poi ti volti a guardarli e non li trovi più». Cosa viene adesso, un altro Trebbi?

R: La cosa inquietante è come più invecchi e più il tempo subisce un'accelerazione, il mio obiettivo è farmene una ragione e trascorrere molto tempo in riva al mare dove il tempo sembra rallentare. Trebbi tornerà puntuale prima della fine del 2017 con la sua quarta avventura.
Oggi ho saputo che sia Il ghiaccio e la memoria, sia Il giallo di Caserme Rosse saranno in gara allo Scerbanenco 2017 e questa è la migliore conferma per uno scrittore non credi?

Jean-Claude Izzo scriveva che «di fronte al mare la felicità è un’idea semplice». Con questa immagine ti faccio i miei complimenti per la meritatissima doppietta allo Scerbanenco.