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#CritiCINEMA - Un cerchio che non si chiude: "The Circle" tra libro e film

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Sono andata all'anteprima di The Circle nutrendo delle aspettative.
Il romanzo di Dave Eggers, bestseller internazionale pubblicato nel 2013, racconta di una tentacolare Tech Company che da San Vincenzo, California, influenza le menti gestendo la totalità delle informazioni web. Grazie a TruYou l'identità di ogni persona viene del tutto tracciata e integrata in un'unica piattaforma accessibile da qualsiasi device: le amicizie, le reti di contatti, le carte di credito, il conto in banca, la partecipazione politica, il lavoro, le cause sociali, gli hobby. Immaginiamo l'unione di Facebook, Google, Amazon, Apple in un unico sistema. Non proprio inconcepibile, direte. 

Nutrivo aspettative perché quando ho letto il libro ho pensato che - pur nella tendenza a scivolare a tratti nel didascalico - fosse in potenza uno dei più cinematografici tra quelli letti negli ultimi anni. Immaginavo gli open space con fiori, piante, monitor sempre accesi e il sole della California che filtra dalle pareti di vetro. A The Circle, si sa, hanno un'ossessione per la trasparenza. 
Ho immaginato Mae Holland e la sua casa di provincia nella baia di San Francisco, dove un attimo c'è il sole e quello dopo arriva la nebbia. Più di tutto ho immaginato come sullo schermo avrebbe potuto prendere forma l'ossessione di un sistema dove tutto è (quasi) perfetto. Così perfetto da fare paura.
Nella trasposizione cinematografica di James Ponsoldt (anche autore della sceneggiatura insieme a Dave Eggers) non manca la capacità di rappresentare. Lo scenografo Gerard Sullivan e il direttore della fotografia Matthew Libatique portano sullo schermo il frutto di una ricerca di valore sul sogno tecnologico californiano. Grazie alla definizione degli spazi, alle luci e ai colori sei subito dentro un cerchio dove nessuno è al sicuro perché tutti possono essere spiati. 

Cosa sembra mancare allora nel film? Lo sviluppo dei temi aperti che coinvolgono il nostro presente:, la problematizzazione degli stessi. La privacy, la gestione delle informazioni e la conseguente manipolazione dei cittadini, l'utilizzo capillare dei social network che annulla ogni distanza tra pubblico e privato, la "datificazione" della nostra vita ci sono ma vengono del tutto accumulati e appiattiti in un unico blocco indistinto. Mae  non nutre mai dubbi, e quando lo fa avviene in maniera impercettibile per lo spettatore che aspetta fino alla fine per vedere una svolta, non tanto nell'azione, quanto nel pensiero, nella costruzione dei rapporti di forza tra il luogo, le persone, la società, la tecnologia. 

Così non trova spazio tutta la dialettica degli opposti che regge il libro: la morte sempre allontanata ma costantemente sfiorata, il sesso come esperienza priva di coinvolgimento, l'amore per gli altri che è continua proiezione e rappresentazione egoistica di se stessi, l'ossessione di una fisicità così sana che arriva ai confini della malattia, l'amicizia tanto sbandierata da perdere valore. Non si dice dopo tutto che quando sei amico di tutti non sei amico di nessuno?
Non c'è spazio per il racconto delle relazioni: tra Mae e Annie, Mae e Bailey, Mae e Mercer, Eamon e Bailey, Mae e Ty (il più insensato tra tutti i personaggi). Il risultato d'insieme è un effetto di inconsistenza, purtroppo differente dalla leggerezza di certi passaggi del libro che somiglia tanto al vuoto

Lo stesso Ponsoldt ha dichiarato che il libro di Dave Eggers si sarebbe prestato anche alla realizzazione di una mini serie perché pieno di idee e spunti e che la difficoltà più grande che hanno incontrato è stata fare delle scelte, concentrare in 110 minuti un sistema di valori.
Black Mirror nella serialità ha trovato la chiave per un racconto di altissimo livello sulle conseguenze impreviste della tecnologia sulla nostra esistenza.

Eppure nello sforzo di concentrazione di temi e vicende, ovviamente necessario in qualsiasi trasposizione, sembra che il regista e anche lo stesso Dave Eggers abbiano preso la strada più facile: non compiere nessuna scelta. Più interessati a regalare allo spettatore un giro dentro The Circle e una veloce panoramica delle sue vicende, creando uno sterile allarmismo che non tiene conto della difficoltà di descrivere il nostro tempo, sorvolano su tutte le storie che vi si sviluppano senza mai vederne da vicino nessuna.
Senza mai fare provare allo spettatore il brivido di andare così vicino all'incubo di un controllo totale, di una completa dissolvenza della nostra persona. Sempre Ponsoldt ha raccontato che la tecnologia nel film viene messa sullo sfondo, diventando quasi invisibile. Ecco che allo spettatore può sembrare il contrario: la tecnologia arriva all'occhio, lo cattura, mentre le persone e le loro relazioni sono messe dietro, invisibili, incapaci di farci immaginare e capire dove stiamo andando. 

Arrivati al climax finale si pensa che finalmente è arrivata quella possibilità di coinvolgimento che ti aspetti da un thriller psicologico. E ancora una volta è semplificazione, potenziale inespresso, personaggi piatti come i loro avatar su TruYou. 

Mi è mancato, in conclusione, il senso della sfida che si prova quando arrivi a un confine, il fatto che il libro ci costringe a guardare un mondo di uomini che nell'ossessione di essere trasparenti diventano sempre più fragili fino a scomparire. Non c'è stata immedesimazione, non ho avuto paura di diventare di vetro come loro. Neanche per un attimo ho temuto questo "migliore dei mondi possibili" che prende forma attorno a noi. 

Claudia Consoli