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“Il passaggio”: un tiepidore tra i ghiacci

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Il passaggio
di Pietro Grossi
Feltrinelli, 2016

pp. 160
€ 15,00 (cartaceo)



Dopo una breve sinossi culminante in una frase tanto roboante quanto retorica come «Carlo si trova a vivere la più grande avventura che un uomo possa intraprendere: ritrovare suo padre», la terza di copertina de Il passaggio promette:
Pietro Grossi [...] ci immerge in quegli abissi che i grandi romanzi di vento e oceano hanno il potere di spalancarci davanti. E lo fa con un libro che è un corpo a corpo fra padre e figlio, un confronto serrato ed estremo nella solitudine dei ghiacci artici.
 Il pensiero va ovviamente a Moby Dick, oppure, data la mole più contenuta e il dissidio familiare, al mirabile I Pitard di Georges Simenon. Si immaginano conflitti estremi, magari irruenti (quel muscolare “corpo a corpo”!), e una tensione straziante accompagnati da continue difficoltà che puntellano una lunga traversata piena di insidie. Ebbene di tutto questo si trova davvero poco e solo a brevi e confusi sprazzi. Nessun profondo abisso, nessun lacerante conflitto, solo qualche difficoltà e poco altro.

Andando oltre le aspettative infrante, Il passaggio racconta della riscoperta di un genitore da parte di un figlio attraverso una narrazione portata avanti con una lingua precisa – molti i termini marinareschi – e una sintassi semplice (ormai consuetudini di molta narrativa nostrana). Carlo Giorgi lavora in un prestigioso studio di architettura di Londra, ha una moglie e due gemelli e un passato da uomo di mare. Una sera, poco prima di una scadenza importante, riceve una chiamata dal padre che gli richiede un aiuto per portare il cutter, Katrina, dalla Groenlandia al Canada. I rapporti del protagonista col padre Fabio, fotografo e uomo errabondo, sono quasi inesistenti fino a quel giorno in cui, spinto da tutti i familiari, decide di partire e fare i conti con il suo passato.
Per non esplicitare troppo delle ragioni dell’originaria rottura dirò che Fabio, dal carattere irruento e libertario, offende Carlo con delle sparate infelici. Nessun estremismo né alcuna colpa dilaniante, ma piuttosto un conflitto delicato, educato e forse persino un tantinello scipito, che risente anche dello spezzettamento dei tempi narrativi – frequenti flashback – e delle aperture spaziali – meritevoli quadri paesaggistici. Per dare un’idea del livello di tensione, già dalla prima notte dopo l’incontro con il padre l’architetto che torna al mare dirà: «Non mi ero mai svegliato, quella notte, e non riuscivo a ricordare l’ultima volta che mi era capitato» (p. 55).

Un possibile itinerario di senso de Il passaggio, sembrerebbe nascondersi all’interno del protagonista: il suo passato è un’epoca di avventure, di novità quotidiane e scelte spontanee che cozza con il suo presente da impiegato e padre di famiglia. Nei ghiacci artici Carlo ritrova quel brivido vitale che si era dimenticato e che lo stupisce per la sua forza. Eppure anche questo percorso è caratterizzato da tiepidità: non nasce nessun dubbio, ma leggiamo solo una vaga e sorpresa soddisfazione per non aver perso qualcosa, come delle vecchie foto in un cassetto. Anche qui il rischio è di un conflitto mancato, più simile ad una incipiente crisi di mezz’età che ad una scoperta esistenziale profonda e squassante.
L’opera è in realtà, all’opposto di come viene descritta nella terza di copertina, un romanzo di pacificazioni, il viaggio per mare è un rito di passaggio dalla condizione di figlio a quella di padre che ha però la pecca di non attraversare un conflitto netto: tutto è sfumato e smorzato senza avere picchi di senso, come se tutto fosse già avvenuto in un’altra epoca ad un’altra persona. Nonostante l’ultimo libro di Pietro Grossi sia scritto bene e con perizia, con meccanismi studiati per far scivolare la storia e si faccia leggere con facilità, in definitiva non riesce a sollevarsi da un destino di passatempo invernale adatto a lettori alla ricerca di un comodo tepore.