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#paginedigrazia - Le colpe altrui, ovvero di come l'amore è la prigione dell'animo umano

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Le colpe altrui
di Grazia Deledda
Ilisso, Nuoro, 2008

Prefazione di Giuseppe Rando

pp. 258
cartaceo: 11 euro
ebook: 4,99 euro

«Quali colpe scontiamo? Le nostre o quelle altrui? E quali sono le nostre e quelle altrui? È tutta una catena, Mikali Zanche, e dobbiamo tirarla tutti insieme, ecco cosa ti dico». (p. 250)

Le colpe altrui, romanzo deleddiano del 1914 (pubblicato a un anno di distanza dal capolavoro Canne al vento), è correttamente definito da Giuseppe Rando, nella prefazione, un «bosco narrativo».
E invero pare di addentrarsi in una fitta foresta di intrighi, rimpianti, remore, vuota autocommiserazione, desiderio apparente di espiazione, peccato e, sopra a tutto, morte, leggendo questo romanzo «minore ma non marginale» del premio Nobel sardo.
Leggerlo, come è successo nel mio caso, a pochi mesi di distanza da Elias Portolu è una rivelazione. Perché questa azione narrativa si può collocare appunto di seguito a quella, sviluppando un continuum riflessivo che è generatore di affascinanti suggestioni.
Ma Le colpe altrui, con questo suo titolo che attinge a piene mani alla morale, alla visione cattolica (o meglio bigotta) del mondo, in maniera così sottilmente ironica, è capace di aprire mille strade interpretative, tutte egualmente valide e obbligate per comprendere appieno il dramma delle vite di Mikali, Vittoria, Marianna, Andrea, Bakis.
Cercheremo, dunque, di procedere con ordine, non tralasciando nessuno spunto, perché tutti possono germogliare nella mente del lettore, offrendogli una chiave riflessiva che non può essere trascurata.
Come continuum narrativo di Elias Portolu, questo romanzo di Deledda è una sorta di risposta alla domanda che tutti noi ci poniamo quando leggiamo: E se…?.
E se Elias e Maddalena avessero deciso di dar seguito al loro amore venendo allo scoperto? Se ella avesse rotto la promessa fatta a Pietro e avesse acconsentito a sposarne il fratello Elias? Cosa sarebbe accaduto?
La risposta è qui, manifesta, spietata: ne Le colpe altrui, Vittoria è la promessa sposa di Andrea, figlio di Bakis Zanche, un uomo benestante e intransigente (come tutti gli uomini sardi): tanto intransigente da aver allontanato da casa la moglie (e madre di Andrea) per sempre, dopo averla sorpresa a baciare un altro uomo; tanto intransigente da aver rifiutato categoricamente di riconoscere il loro secondo figlio, Mikali, concepito quando i due erano ancora sposati, ma nato successivamente. Mikali e Marianna Zanche, sua madre, vivono come servi presso lo stazzo Zoncheddu, a pochi metri di distanza dal padre e marito. Mikali cresce come un bastardo, macchiato indelebilmente da gravi colpe altrui: quelle di Marianna, in primis, e quelle di Bakis, incapace di pietà e perdono, persino in punto di morte. Ma Mikali si è innamorato (ricambiato) di Vittoria, la fidanzata del fratello. Il loro amore adolescenziale è spontaneo e irrefrenabile, tanto che Vittoria decide di rompere il fidanzamento con Andrea. Ma quando questi muore, suicida, e alla sua segue a ruota la morte del suocero Bakis, Vittoria si ritrova unica erede dell’intero patrimonio della famiglia, quella «roba» di Bakis Zanche, il suocero che la adorava, che diviene per lei motivo di tormento e strazio. Ecco allora che, per ricomporre in parte le ingiustizie subite da Mikali e dalla madre, ma soprattutto per l’amore che la infiamma suo malgrado, ella decide di sposare il ragazzo. Ma il matrimonio è tutt’altro che felice.
Ecco, dunque, che Deledda ci conduce per mano verso la risposta a quell’affascinante quesito che si muove dentro noi lettori alla fine di una storia, quel “E se…?” che è sempre tentazione verso il “Vissero felici e contenti”.
E la seduzione della fiaba è invero alimentata anche dalla costruzione narrativa: l’amore tra Mikali e Vittoria giunge al matrimonio grazie (o sarebbe meglio dire: per colpa?) all’intervento determinante di un aiutante: una figura che rende possibile la realizzazione del bene. Qui, a fare da moderna fata turchina è «la gobbina», zia di Vittoria che, tuttavia, più che a una fata somiglia a una jana sarda, nella sua rappresentazione di strega piccola e maliziosa, in un implacabile rovesciamento dello schema fiabesco. E la distanza che esiste tra l’immagine della fata turchina e quella deforme della «disgraziata storta» (così com’è definita da Mikali) è la medesima che si può misurare tra l’amore puro della principessa e del principe, e quello torbido e sensuale di Mikali e Vittoria.
Mikali sentì una puntura nelle viscere; lasciò la donna, che gli si risollevò davanti, deforme e inesorabile come il rimorso... (p. 221)
Dunque no, ci risponde l’autrice, non c’è nessun lieto fine dietro un peccato che trova la strada della legittimazione.
E se questa può apparire come morale religiosa, Deledda smentisce immediatamente anche tale possibilità. È vero che tutto il dramma familiare è costruito e si regge su rimandi biblici: si pensi alla scelta dei nomi. Mikali, Michele, come l’arcangelo guerriero, colui che dal fianco di Satana si allontana nel momento del suo tradimento a Dio e, raffigurato con la spada, combatte il Male. Marianna, madre di Mikali e Andrea, nella Bibbia è il nome della madre di Erode Filippo I, figlio di Erode il Grande, ripudiata dal marito (e il figlio diseredato) per averlo tradito, non rivelandogli un complotto mortale ai suoi danni.
Si potrebbe continuare sottolineando la reiterata inclinazione dei personaggi maschili del romanzo a definire le donne «serpenti di Satana», discendenti dirette dell’Eva tentatrice del Paradiso Terrestre. Ma dove si nasconde la grandezza letteraria di Deledda, in questo apparente bigottismo? Ebbene, già nel titolo. Perché Le colpe altrui è già chiaro disvelamento di quella sottile ironia insita nella morale bigotta: lungo tutto il romanzo è un continuo rimando a quei peccati «altrui» (sempre altrui) che, a parere di Mikali, di Andrea, di Bakis, di Vittoria, sono i veri responsabili del dolore subìto.
Ma sia fatta la vostra volontà, o Signore. Castigatemi pure, castigate me e il mio compagno di colpa, ma che la nostra colpa non ricada su mio figlio, come le colpe altrui sono ricadute su di noi. (p. 237)
Gli sembrava che facendo morire Andrea in così malo modo Dio castigasse Bakis Zanche dell'ingiustizia usata all'altro figlio, a lui Mikali, col ripudiarlo e farlo vivere come un bastardo. (p. 114)
Mikali non pensa mai, neanche per un momento, che l’inquietudine che prova, quell’ossessione verso la fuga, quella discordia matrimoniale insanabile, siano dirette conseguenze dei suoi errori, del suo egoismo, della sua avidità.
E di contro, quelle definite «serpenti di Satana», le donne del romanzo, sono le uniche a provare rimorso, a portare il peso della colpa, persino di quelle realmente «altrui»: ciò che non sanno fare, il loro limite insuperabile, è ribellarsi allo stato delle cose. Esse lo subiscono come necessaria espiazione, eterna, dei loro peccati: è ciò che fa Marianna Zanche, vivendo per decenni come una serva, senza pretendere il legittimo riconoscimento del figlio da parte del padre; è quello che fa poi anche Vittoria, accettando i tradimenti del marito, continuando a portare la croce della «roba altrui», così come delle colpe (proprie e) altrui, sebbene sia fonte continua di tormento. Le donne, che sembrano in un primo momento le sole anime morali del romanzo, nel senso religioso del termine, sono in realtà marionette, personaggi così immobili e trincerati dietro una interpretazione medievale della religione che vien voglia di prenderle per le spalle e scuoterle, mentre recitano il rosario di fronte al caminetto, o si inginocchiano davanti alla statua di Sant’Isidoro, chiedendo invano un consiglio. Perché il loro rimorso non è conseguenza di un sincero pentimento, bensì della paura del giudizio supremo:
«E lui, invece, Mikali... disgraziato... lui non pensa a questo. Lui non ha rimorsi: lui non pensa che l'altro è morto per colpa nostra: para, perché gli uomini son così? Senza timor di Dio?» (p. 146)
In questo romanzo Deledda vuol forse mostrare al lettore i pericoli che si celano dietro l’abbandono al peccato, sì, ma di fatto definisce il più chiaro manifesto contro il bigottismo della religione. Quel titolo apparentemente solenne, che fa riferimento alle «colpe del padre che ricadono sul figlio» di biblica memoria, è in realtà il più feroce scherno all’incapacità dell’individuo di guardare entro il proprio animo, prima di volgere lo sguardo verso l’empietà altrui.
«Sai cosa ti dico, Vittoria? Siamo noi che cerchiamo di caricare le colpe nostre sugli altri». (p. 243)
Su questo impietoso quadro, si muovono anche più specifici e affascinanti riferimenti letterari, che un osservatore attento non può non notare: la  capacità di Deledda di raccontare la grande tradizione popolare accanto alle minuzie individuali, che permette di avere un affresco vivido della vita in Sardegna nel Novecento, e che richiama il verismo verghiano. Una similarità determinata probabilmente anche dalla natura isolana peculiare che accomuna la Sardegna e la Sicilia, ma che in questo romanzo si spinge oltre, nell’uso frequente del termine «roba» riferito ai possedimenti e alle ricchezze ereditate da Vittoria. Quella «roba» che richiama l’omonimo racconto di Giovanni Verga e che in entrambe le narrazioni è motivo di ansia e tormento, sebbene per ragioni differenti. 
E come non pensare alla tragedia shakespeariana Macbeth, leggendo il dramma di amore e colpa che riguarda Mikali e Vittoria? Essi hanno ucciso, sebbene non direttamente, Andrea e Bakis, sgombrando spietatamente la strada verso la «roba», la ricchezza, l’agio, la passione legittimata dal matrimonio: ma non possono affrancarsi dal peso del peccato; ne sono perseguitati, il germe della discordia che rende impossibile vivere in pace è quello specchio che l'una rappresenta per l'altro: solo guardandosi, essi evocano senza tregua la macchia infame della loro coscienza.
«Sono io la tua coscienza, Mikali! (...) Non è la roba che ci tiene in discordia, Mikali: anche poveri, anche lontani di qui, lo saremmo lo stesso. È il peccato che ci tormenta, è il tradimento che abbiamo fatto.» (p. 254)
A origine e chiosa della tragedia, è la definizione deleddiana dell'amore a rendere l'infelicità dei due sposi ineluttabile:
«…ci siamo incontrati; ed ecco un giorno ci accorgemmo d’essere legati assieme come prigionieri alla stessa catena». (p. 62)

Barbara Merendoni