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Invito alla lettura - "Le menzogne della notte": la storia infinita di Gesualdo Bufalino

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Nel luglio di 28 anni fa Gesualdo Bufalino vinceva il Premio Strega con il suo terzo romanzo, Le menzogne della notte (Bompiani, 1988). 
Dirò subito che questo per me è il più intenso tra i romanzi bufaliniani e l'incipit parla da sé:
Mangiarono pochissimo o niente. Le portate, sebbene più ricche dell'ordinario, per come s'era ingegnato di condirle un secondino volenteroso, avevano un sapore nemico, né v'era un boccone in gola che non diventasse una cenere. L'inappetenza, si sa, è d'obbligo nelle serate d'addio. 
La serata d'addio è l'ultima notte che un gruppo di condannati a morte trascorre in un'isola penitenziaria, una fortezza che ha le sembianze di uno scoglio, che probabilmente è nel Mediterraneo, ma potrebbe essere ovunque. Un canale la separa dal continente, le correnti del mare e i venti turbano gli animi dei prigionieri ormai irrimediabilmente separati dal mondo.

Nessuna comunicazione tra l'isola e il continente, il tempo è sospeso, sono cadute le differenza tra il giorno e la notte. Nelle prime pagine del romanzo l'autore ci porta a scoprire quest'isola dimenticata ("Quassù del Regno e del re nessuna notizia. Sanno solo dai picchi sui muri, come da tamburi lontani, che alla regina è nato un erede morte e che dunque morisse il re...")
Le voci dei prigionieri, anche loro come tamburi lontani, risuonano nelle celle cieche tra i muri umidi e lì vanno a morire. Mentre sognano la vita nel Regno, i prigionieri aspettano un tempo che sembra infinito contando i giorni e le ore che hanno ancora da vivere.
Chi ha letto Diceria dell'untore ritroverà in questo luogo i tratti del vecchio sanatorio di Palermo e nei prigionieri rivedrà i malati del primo romanzo. Anche qui la regia di un non luogo è in mano a un personaggio cinico e disperato, il Governatore Consalvo de Ritis, detto Sparafucile, che ha dei tratti in comune con il Gran Magro del romanzo del 1981.
Tutti i personaggi sono come naufraghi, rifiutati da un mondo che non li vuole più.

Non conosciamo l'anno di questa storia; come sottolinea Nunzio Zago nell'introduzione all'edizione Bompiani del 1988, assistiamo a un totale straniamento cronotopico. Siamo forse nel Regno delle Due Sicilie, al tempo di Ferdinando II di Borbone, ma le coordinate storico-geografiche sono "vaghe ed ellittiche" e il re più volte menzionato non ha mai nome. Indubbio il gusto risorgimentale, gli echi liberali e carbonari.
I quattro condannati, rei confessi di Lesa Maestà, si sono uniti tutti a un ignoto Padreterno, "Autore primo e domino della congiura, di cui presiede le assise e addipana dal buio le fila [...] lui dà le parole e gli ordini, insegna le imprese, designa le vittime".


Il Barone Corrado Ingafù, il poeta Saglimbeni, il soldato Agesilao degli Incerti e lo studente Narciso Lucifora sono adepti del Padreterno in attesa di subire la decollazione da parte di Sparafucile che lancia loro una sfida, una scommessa: la confessione in cambio della verità. Un'intera notte per pensarci.
Rimasti ormai soli, con gli occhi puntati sul cortile in cui si trova il patibolo, i quattro trascorrono l'ultima notte in compagnia di Frate Cirillo, una sagoma inerte di cui si dice fosse un brigante sanguinario. È proprio lui a proporre ai condannati di impiegarla raccontando ciascuno la propria storia. 
Non starò a porvi confini. Ognuno racconti di sé. Per esempio, quando e come, in un discrimine della sua esistenza, sia stato per avventura, o si sia creduto, o l'altri l'abbia creduto felice. E quale effigie egli scelga, fra i suoi giorni dilapidati, per fissarsela sotto le palpebre nell'istante che il suo collo sarà infilato nel tondo e un filo freddo di lama a precipizio lo scannerà.
Inizia così una notte di astratti furori, per riprendere le parole di un altro celebre autore siciliano.
Bufalino dà al suo romanzo una struttura a cornice che richiama illustri modelli come Le mille e una notte e il Decameron, ma è lui stesso a dichiarare in Cur? Cui? Quomodo? Quid? (Associazione cultura Agorà, 1989) di aver scelto una "cornice forte, dinamica, che è essa stessa racconto e si serve dei racconti minori per raggiungere il suo esito tragico: una cornice-fiume; coi racconti come affluenti". 

È tutta una dinamica di sottili equilibri. Mentre le linee del racconto agiscono come forse centripete e riportano le narrazioni dei quattro personaggi a un centro focale, l'hic et nunc della prigione, le loro storie ricreano il caos della vita in lotta costante con la morte. Allo stesso modo l'ordine delle regole rappresentato dal fanatico Governatore lealista si scontra con la possibilità, anche solo accennata, di una rivoluzione.
È nel racconto delle quattro storie che il virtuosismo di Bufalino tocca il suo apice. Nel contenuto, tutte e quattro raccontano la ricerca di identità da parte di personalità scisse, divise, in lotta con se stesse. Ancora Zago sottolinea, a questo proposito, la vicinanza alla frammentazione dell'io pirandelliana o alle moltiplicazione delle identità e dei punti di vista di Borges.

Dal punto di vista della forma, invece, le storie diventano il luogo dell'intertestualità più ricca in cui l'autore dialoga con voci letterarie e storiche del passato in un tutt'uno armonico straordinario. Da Tito Livio al teorico della Restaurazione Joseph de Maistre, da Mazzini ai film di Jean Renoir, da Orazio a Stendhal, da Tommaseo a Manzoni, da Machiavelli a Leopardi, attraverso scelte lessicali preziose, e talvolta barocche, Bufalino rivaleggia con la grande tradizione letteraria.

E questa ricchezza si riflette anche nel genere, o meglio nel non genere di questo romanzo, che l'autore stesso ha definito un po' fantasia storica, un po' giallo metafisico, un po' moralità leggendaria. A piacere, aggiunge infine, lasciando la scelta al lettore.
Le menzogne della notte ha anche uno spiccato carattere teatrale - quello drammaturgico è un mondo che Bufalino conosceva molto bene - tale che ci sembra quasi di essere in platea ad attendere che qualcosa accada, insieme ai personaggi della scena.

L'autore fa molto di più che raccontarci una storia; mentre si aspettano le luci dell'alba ci riporta alla domanda di senso sulla nostra esistenza e, scelta non casuale, mette in bocca il dubbio proprio al personaggio di Consalvo de Ritis:
... allora mi chiedo: io, chi sono? Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri? Siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d'una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d'un prestigiatore nemico? Se così è, niente è vero. Peggio: niente è, ogni fatto è uno zero che non può uscire da sé. Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide: metafisici niente, noi e lui, mischiati a vanvera da un recidivo disguido: nasi di carnevale su teschi colmi di buchi e d'assenza... Ho visto un quadro a Parigi, or è un anno. Rappresentava una scimmia in un ateliere, con tavolozza e pennelli. Saremmo questo, noi creature di lacrime? Gli scarabocchi d'una scimmia pittrice? Se non pure fantocci in piedi, nel mezzo di una stanza, moltiplicati da due specchi che si fronteggiano?...
Questo è un regalo, un dono in forma di libro, che Bufalino ha fatto a tutti i lettori.
Lo suggerisce lui stesso che quel "A noi due" posto in esergo al romanzo possa essere un omaggio affettuoso a chi legge, un cenno d'intesa che ha anche in questo caso un'eco letteraria con una ripresa ironica dal Père Goriot di Balzac.
Ma la questione resta aperta, come la domanda di senso. Dopo tutto questa è solo una delle tante possibilità e interpretazioni di un libro infinito.

Claudia Consoli