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#ScrittoriInAscolto - Vecchioni allo ScrittuRa Festival ci ha raccontato la sua felicità

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La vita che si ama
di Roberto Vecchioni
Einaudi,  2016

pp. 168
€ 16.50 (cartaceo)


«Felicità non è quando stiamo bene, no. Quelli sono solo attimi di gioia. Felicità dev’essere tutta la tua vita. La felicità esiste sempre e comunque. Essere felici di essere vivi, di provare dolori e sconfitte. Non è immobilità, imperturbabilità. È battaglia, è combattimento.»

Inizia così Roberto Vecchioni nel presentare il suo La vita che si ama. Storie di felicità, edito da Einaudi. Un libro dovuto, necessario per chiarire a sé e ai suoi figli un po’ di quelle cose importanti che non trovano mai il momento giusto per essere dette. Il teatro di Lugo è stracolmo: al loggione siamo in doppia fila. Non si appollaiano sulle mie spalle solo perché vedono che ho un taccuino e scrivo.
«Il destino...? Macché. Nessuno dall’alto, voglio pensarci io. Il destino ci prova a fotterti, ma siamo noi a dover fottere lui. Noi tutti siamo più grandi del destino. Ed è questa la felicità. Felicità è combattere contro l’impossibile, andare all’inferno e sconfiggere il demonio, girare il mondo come Ulisse. Che forse non è un gran esempio dato che ovunque poi scopava come un pazzo.» 
In effetti. Inizio a guardare le facce sotto di me. Silenziose, attente. Ormai il Prof ci ha catturato.
«Esistere è un continuo sfidare la vita. È una cosa ordinaria, in fondo. La felicità non è fatta di accadimenti. Sempre, continuamente, giorno e notte è con noi. È l’essere uomini, è la gioia di essere nati, di vivere, di muoversi. È dinamismo, è febbre. Dalla volontà di spiegare questa situazione a mia figlia nasce il libro.» Dice che vuole insegnare ai suoi figli qualcosa. «A casa sono un cialtrone», racconta. «Ma sul palco diventiamo eroi. Volevo spiegare loro quanto amo la vita, quanto bisogna combattere. Poi a casa si guardano assieme programmi imbecilli e ci si racconta barzellette stupide. In fondo è un po’ questa no, la vita che siamo.»
Il suo libro è una raccolta di tredici lettere su ciò che la vita è davvero per lui. Cos’è la vita che non siamo? «La vita che non siamo è falsità. È la vita del successo, dell’essere sempre troppo impegnati e avere vinto dei premi, o essere considerati degli ottimi cantautori.» Ci scherza un po’ su.
«La verità è che sono le canzoni facili quelle che il pubblico vuole, ma sono quelle segrete che nascondono la mia felicità. Il lanciatore di coltelli, per esempio. Ci sono canzoni che mi rappresentano e che raccontano la mia felicità, che in fondo è essere d’accordo con se stessi.» 
Mi ricorda Erasmo, che scrisse che la felicità è voler essere quello che si è. Chissà se quando ha letto l’Elogio alla follia si è segnato quel punto come ho fatto io, mi chiedo.
«La felicità la raggiungi quando diventi padrone del tempo. Non è mica facile, perché il tempo scorre orizzontale. Il passato lo rimpiangiamo, il futuro lo temiamo, ma in realtà è tutto in un istante.» 
Sant’Agostino non solo te lo sei letto, Prof, l’hai fatto tuo. «Il passato lo porto con me, realmente. Mia madre scende sempre le scale, ogni giorno. E il futuro è sogno, speranza, immaginazione: così esiste. E nessun rimpianto: ricordi tanti, come diceva De André.» Parla dell’essere cantautori. Dell’amico De André dice: «Lui sì che era un grande. Per scrivere canzoni ci vuole pathos. Ci sono canzoni d’autore che mi piacciono ma non le capisco. Ho chiesto a Faber: “Ma che significa Sally?”, mi ha risposto che quando l’ha scritta era ubriaco e non lo sapeva. Eppure è una canzone bellissima.» Di fianco a me, uno chiede alla sua compare se Sally non l’abbia scritta Vasco. Decido di tirargli una scarpa, ma ho le ballerine nuove. Rinuncio. Matteo Cavezzali intanto chiede al Prof cosa l’abbia spinto a continuare a insegnare, nonostante – economicamente – non ne avesse più bisogno. Prendo appunti, niente ballerine volanti. Sei fortunato.
«L’istruzione è la cosa più importante. Lo stato sperpera in tutto, ma taglia l’istruzione che è l’unica corazza che diamo ai ragazzi contro le malversazioni. Nella vita si fanno dei compromessi, certo, ma è con l’istruzione che capisci che la vita non è possedere. È quello che hai dentro che ti rende vivo. È l’istruzione che insegna a discriminare quello che conta da ciò che non conta affatto. La cultura insegna a vedere i collegamenti tra le cose, capire quello che è utile da quello che non lo è. La cultura è verità. Posso anche morire di fame, ma la verità non me la possono togliere.» 
L’incontro finisce, in teatro ci sono quaranta gradi ma la conclusione è da pelle d’oca. «Stasera quando sarò a letto ripenserò a voi, alle vostre facce ma soprattutto ai vostri silenzi, che significavano emozione.»
Torno a casa. Alla tv c’è la maratona di Mentana sulle elezioni, la lascio senza volume per ascoltare i grilli. Mi torna alla mente un pensiero che Vecchioni ci ha letto poche ore prima. Forse sa un po’ di scrittine da bacio perugina, eppure ci ripenso. È un testo di Madre Teresa di Calcutta. Sono sicura di averlo già letto in quelle grafiche pacchiano-zen-mistiche su facebook firmate sempre – inesorabilmente – Coelho.
Non c'è momento migliore di questo per essere felice.
La felicità è un percorso, non una destinazione. Lavora come se non avessi bisogno di denaro,
ama come se non ti avessero mai ferito e balla, come se non ti vedesse nessuno.
Mi piace un sacco questa cosa della danza. Sorrido. Fortuna che le ballerine le ho ancora tutt’e due.

Manuela Cortesi