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#CriticaLibera - Storia di un'anima: Osvaldo Licini

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L'Amalassunta
di Pier Franco Brandimarte
Giunti Editore, marzo 2015

pp. 192
14 euro




Non propriamente un romanzo, né una biografia, ma neanche un saggio. Le parole che corrono sulla carta diventano nella nostra mente stralci vividi e limpidi, quasi cinematografici. La sensazione è quella di essere insetti ricettivi al minimo cambio di vento, al più piccolo vortice emotivo. Siamo ora l’autore, ora un passante disinteressato, ora il pittore.

Se dovessero chiederle chi è Amalassunta, risponda pure, a mio nome, che “Amalassunta è la Luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco.” (p. 117)

Assistiamo al primo pianto di Osvaldo Licini, appena messo al mondo, è il marzo 1894. La madre lo lascerà alle cure dei nonni per raggiungere a Parigi il marito. Compare una fotografia, il piccolo Osvaldo vestito da marinaretto. Più avanti il narratore scuote un’altra vecchia foto e libera Licini, giovanotto, tra i ciottolati di Bologna, mentre si aggira bighellonando in Piazza Maggiore con Vespignani e Morandi, suoi compagni all’Accademia delle Belle Arti. Ascoltiamo la voce narrante interrogarsi sui dipinti di Licini e ripercorrerne l’adolescenza, l’arruolamento durante la Grande Guerra – e il dolore. Osvaldo Licini è dentro una buca sul Podgora, scagliato a terra dall’esplosione che lo lascerà invalido. 
Il dolore non permette alla mente di allontanarsi dal corpo, sono un tutt’uno. È il momento in cui si è più presenti, si riscopre la rotazione del gomito, come chiude una mascella e soltanto molto più tardi, al caldo e al chiuso, da vivi, si può proiettare avanti e indietro il corso degli eventi, consolarsi con ciò che poteva accadere, rendersi conto di ciò che è accaduto. Potevano essere le mani, e non avrei più dipinto, l’avrà pensato. Avrà pensato Senza una gamba riuscirò a fare l’amore? (p. 45)
Le paure del pittore tornano alla memoria mentre leggiamo della passione consumatasi con Beatrice, la crocerossina che gli darà un figlio. Elvira, compagna d’un tempo, fa scempio dei suoi dipinti dopo averlo saputo. Le fiamme che avvolgono lo studio di via Landini lanciano un riverbero di provvidenzialità alle pagine successive, quando si assiste all’incontro forse più decisivo a livello artistico: quello con Modigliani. Ed eccoci dunque, emozionati e irrequieti, a Parigi, mentre lo aspettiamo seduti al tavolino di un café. Modigliani ha dieci anni in più di Licini, al momento dell’incontro è già un uomo, è già Modigliani. Guardiamo una sua opera esposta a Torino. Poi un’altra nel suo studio di Parigi, il sottofondo è la nenia devota della vecchia nonna dello scrittore, ma chi li scruta è Licini, un secolo fa.
Il soggetto sta dietro a un pensiero, impassibile, statico: qualcosa l’ha invaso, lo riempie. Accosta il cerino, esplora le zone dipinte. La luce ne rivela i segni, le linee, l’impasto dei colori, le sfumature d’ombra. Licini ripensa a quel momento, al formicolio che a un tratto gli è salito per la schiena: Mi curvai davanti a quel quadro nella stanza spoglia, con una fiammella tra le dita, e all’improvviso mi sembrò di capire. (p. 87)
Verità o fiction? Entrambe le cose, e nessuna delle due. La fiction è il battito che prende vita dalle tracce che Licini si è lasciato alle spalle – lettere, appunti, disegni. Più che di finzione, si tratta di percezione. Chi scrive apre l’animo di Licini: fatti ed eventi sono in controluce, accessori al flusso dello spirito. E la prosa, in qualche modo, si modella sopra l’astrattismo del pittore. Ho sempre pensato all’arte astratta come a un punto di domanda che l’umanità pone a se stessa. Pura percezione, senza particolari responsi, sempre in bilico tra i nostri sensi e l’anelito, irrinunciabile, al divino. Lo stesso regno, per intenderci, dove corrono i poeti. E un poeta in particolare, Leopardi, va e viene nel corso del libro. Emerge in spunti descrittivi, finché cade l’occhio sul volume dei Canti. Penso a quel progetto leopardiano, mai realizzato, di scrivere la Storia di un’anima. E anche se le anime, in L’Amalassunta, sono due, la trovo una definizione calzante.

Manuela Cortesi


Amalassunta, 1950
Olio su tela, 13,5 × 17 cm

Amalassunta su fondo verde, 1949
Olio su tela, 80,5 × 100 cm

Amalassunta su fondo rosso, 1950
Olio su tela, 64,5 × 81 cm