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Passaggio in India. Prima puntata

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Mare di papaveri (Sea of Poppies)
di Amitav Ghosh
Neri Pozza Editore, Vicenza, 2008

traduzione dall’inglese di Anna Nadotti e Norman Godetti

pp. 503
€ 9


L’Oceano Indiano, o il Nero Oceano come lo chiamavano le genti del sub-continente, come punto di osservazione per comprendere non solo l’Asia ma il mondo intero e la sua storia recente. Nero Oceano: pare di leggere un trattatista medioevale alle prese con quanto stava al di là delle colonne d’Ercole. Il vuoto, il nulla, mostri impossibili o la montagna del purgatorio. Anche per gli indiani esistevano delle colonne d’Ercole, non uno stretto di mare a delimitare terre emerse: erano le foci del Gange, il fiume sacro. Giustamente: oltre il sacro non può che esserci l’inferno.
L’inferno era, più prosaicamente, il sistema penitenziario dell’impero britannico che a ogni isola solitaria o di un arcipelago faceva corrispondere una colonia penale: le Andamane, le Laccadive, le Maldive, Mauritius. Oggi ci vai in vacanza, ieri ci andavi a morire. La barca protagonista di questo romanzo, nella mente di Ghosh il primo di un’ambiziosa trilogia di esemplari intreccio e complessità, la goletta Ibis, salpa alla volta di Mauritius, Mareech nella lingua dei paria, e non è un viaggio di piacere.
Soffermiamoci un attimo sull’autore, per la prima volta trattato su CriticaLetteraria: Amitav Ghosh è nato a Calcutta nel 1956 ed è cresciuto tra Bangladesh, Sri Lanka, Iran e India. Grazie ai suoi romanzi si vivono trame sfaccettate, dolorose e crudeli. Sono narrazioni torrenziali, come una pioggia monsonica, avvincenti, da feuilleton ottocentesco. Questo termine, ha dichiarato Ghosh, non lo scandalizza, anzi lo rivendica come genere letterario che gli consente un solido ancoraggio a una cultura popolare. Pare strano ma nella Calcutta del XIX secolo, c’era una fioritura straordinaria di romanzi d’appendice, pubblicati a puntate su riviste, che pareva la madrepatria britannica. La colonizzazione, non possiamo dimenticarlo, è erga omnes: economica, linguistica, culturale. Amitav Ghosh è l’erede di quella tradizione.
Sembra d’introdurre un aspetto positivo del colonialismo. In fondo, se il dominio inglese incarnato nella Compagnie delle Indie Orientali si fosse limitato a esportare Dickens… solo che decise anche di trasformare il lussureggiante Bihar in una terra di monocultura dedicata al redditizio oppio. Quello stesso oppio che doveva poi raggiungere Calcutta e da qui navigare fino a Canton per imporsi in Cina. Sappiamo come finì negli anni Quaranta dell’Ottocento e Ghosh ci arriverà.
Quello che emerge in questo primo romanzo della trilogia, che si svolge prevalentemente a terra, in India, e porta la Ibis alla volta di Mauritius come viaggio di prova imposto dall’armatore, è la miriade di personaggi e di comparse che si muovono, parlano lingue diverse e si osservano nelle loro psicologie. Questa capacità di Ghosh di lavorare sulla multicultura è da scrittore di rango, perché di essa ne offre la sua duplice veste: di ricchezza e di disagio allo stesso tempo. Perché quando tante culture si trovano a condividere la stessa terra, se la predisposizione è buona, ne può uscire un meticciato solido, altrimenti è scontro. Inutile negarlo. Ciò che provano d’altronde a dirci i traduttori nella loro nota finale, dove chiariscono come Ghosh abbia usato molti idiomi, è che la lingua sia la vera protagonista.
Dal punto di vista di un traduttore posso capire che sia così ma per noi lettori, accanto alla lingua, s’impone la Ibis. Il suo carico è composto da un universo che in questo microcosmo riesce a dimenticare la vita di prima e a rinascere in altro modo: Zachary Reid, il secondo ufficiale che è figlio di una schiava liberata del Maryland, Jodu, figlio di un barcaiolo che da sempre desidera di diventare lascaro, Paulette, orfana di origini francesi accolta nella propria famiglia da Mr. Burnham, proprietario della Benjamin Brightwell Burnham e dell’Ibis; Serang Ali, il capo dei lascari, Deeti, vedova che lotta per recuperare la libertà a tutti i costi e contro tutti, Neel Rattan Halder, raja di una terra sterminata che pagherà a caro prezzo l’incrocio dei suoi destini con quelli di Burnham.
Ed ecco il punto: questa puntata d’esordio è una guerra di mondi. Ovviamente, tale significato è mascherato dalla costruzione letteraria che, abbiamo detto, è vasta e positivamente deformata da questa torre di Babele che si viene a comporre, ma non a caso la parte centrale del libro narra la sostituzione, subdola, di un nuovo potere aggressivo di matrice capitalista al vecchio feudalesimo delle caste. Sembra di sprofondare in una lettura marxiana, la rivoluzione borghese che distrugge il precedente assetto. Nell’ambito della Storia, quella hegeliana con la S maiuscola, l’arrivo degli inglesi nella mistica India ha certamente rappresentato questo passaggio dirompente, di rottura, edulcorato negli intenti degli dominatori dal principio della libertà dei commerci e dalla common law. Ma uno scrittore non è un sociologo o un filosofo e rispetto a questa visione assoluta scende vertiginosamente di grado e contrappone un duello fra due personaggi che incarnano questi due universi. Umanizza la scena e mette in risalto come il prezzo pagato al progresso dalle genti a cui si portava la cosiddetta “civilizzazione” sia stato comunque enorme.

Marco Caneschi