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"Nella casa di vetro" di Giuseppe Munforte

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Nella casa di vetro
di Giuseppe Munforte
Gaffi editore in Roma, 2014
pp. 199



Entrato nella dozzina dei candidati all'edizione 2014 del Premio Strega, Nella casa di vetro si accosta all'immaginario del lettore con un incipit caratterizzato da un lirismo oltremodo incisivo in cui si cela l'essenza della storia che andrà delineandosi, pagina dopo pagina, con crescente nitore.
Da una sorta di struggente preghiera, che rimanda a un anelito di purezza, levità e coraggio (Portami ancora leggerezza e voglia di correre, il fruscio della bicicletta su uno sterrato, la neve che placa le strade, quello sguardo, quel profumo, e poi chiarezza [...] Portami la libertà dei pensieri, e del desiderio. Il coraggio della veglia), Davide, voce narrante del racconto, vive la dimensione quotidiana che si staglia ai margini di Milano, con il suo incedere metallico e asetticamente surreale, nella sua grigia possenza dentro quelle vasche oscure della sotterranea che il protagonista costeggia
come ombra feroce sui metalli [...], affondando verso il mezzanino dentro il popolo lumaca che alza le sue mille teste e le ritrae ritmicamente, respirando, sfiorate dai liquidi bagliori dei neon. 

Una dimensione attraversata fugacemente, dissimulando a stento la paura che anche la sua anima venga fagocitata dall'ombra lunga dell'assenza di un pensiero autonomo e dall'oblio della purezza. Una purezza che forse non sbiadirà se a Davide sarà concesso di tornare
in quel parco, una domenica mattina di novembre. [...] Dentro la luce di foglie contro la pineta. Nel silenzio. [...] Vicino a tutti i bambini che andavano e venivano. 
Forse in questa purezza ritrovata o, meglio ancora, mai perduta, si dipana il tessuto più autentico della felicità per sé e per la sua famiglia. Quella nota di apparente distacco emozionale, che caratterizza Davide in veste di io narrante, è solo una lucida consapevolezza dei confini da non oltrepassare per non smarrire il suo candore di fondo, pena il ritrovarsi identico in tutto e per tutto a quel popolo lumaca meccanicamente asservito ai dettami di una realtà senz'anima tipica di una metropoli come Milano. All'interno di quel microcosmo (la casa di vetro) tenacemente strappato alla morsa tentacolare di un macrocosmo spesso evocativo di cupe atmosfere vagamente espressioniste, la felicità incarna un'aspirazione insopprimibile per Davide, a dispetto delle forze contrarie che aleggiano in questa greve toile de fond attraversata, come un rumoroso torrente di asfalto, da lamiere crepitanti e aria inquinata, e dalla tangenziale che la unisce indissolubilmente a una realtà comunque ineludibile.
Prima dell'arrivo di Elena, quel microcosmo di fatto non esisteva; era solo una minuscola bolla incastonata in quel palazzone-macrocosmo popolato da tante persone di cui Davide intuiva un'intrinseca bontà e a cui tuttavia permetteva di lasciarsi sfiorare in modo fugace. Per molto tempo, anche la stessa Elena, che in quel palazzone era cresciuta, aveva rappresentato per Davide
una delle spire di quel movimento che si accompagnava al traffico incessante. [...] Ma era un'anima un po' speciale per lui, una formichina bizzarra che rubava il suo sguardo e apriva un varco di buonumore nei suoi pensieri.
Elena è già madre di Sara, che Davide ama né più né meno come Andreas, quel figlio giunto quasi a sorpresa per chiudere il cerchio di un microcosmo idealmente perfetto, quasi ovattato, su cui Davide veglia con un'attenzione mai invadente, su cui sembra muoversi con passi felpati, come se non volesse turbare certi equilibri sottili che si nutrono di un rispettoso silenzio. Davide nota tutto senza darlo a vedere, quasi temendo di risultare inopportuno, ma non esiterebbe a intervenire se solo intuisse che una minaccia incombe sulla felicità del suo microcosmo, perlomeno fra le pareti della casa di vetro che hanno il potere di dissipare ogni ombra, ogni tensione e ogni inquietudine che tentano di insinuarsi dall'esterno.
Davide muore all'improvviso in un incidente stradale, ma il suo io narrante sopravvive e continua a vegliare sul suo microcosmo. L'assenza della materia e dei suoi vincoli gli permette di essere sempre accanto alle persone che ama, ma al tempo stesso gli preclude la possibilità di intervenire in modo tangibile, causandogli un'indicibile sofferenza, come lui stesso ci spiega:
Quando sono morto, non era il momento giusto. [...] E' stato come se mi si fossero congelate le mani: come se, di colpo, mentre eravamo seduti all'indiana, faccia a faccia, io e Sara, intenti a uno dei nostri giochi, un muro di fumo leggero (uno specchio), si fosse messo tra noi, chiudendoci gli spazi. Ero io a disfarmi in luce, cadendo a tradimento in uno stato meno nobile di consistenza, da oro a ferro - e sentivo che anche gli altri, come me, si stavano trasformando, in una manifestazione di quell'intangibilità che, come una malattia, avevo sempre percepito nella loro esistenza.
Questo passaggio stimola peraltro un'attenta riflessione sui misteri della morte e della sopravvivenza dell'anima, proiettandoci sul versante di colui che è trapassato e che verosimilmente soffre (ove si ipotizzi l'attendibilità di questa teoria), specchiandosi nella sofferenza dei suoi cari, senza poter fare nulla di tangibile per alleviarla. Davide segue le tappe del sentiero esistenziale di Elena e dei loro figli dalla dimensione privilegiata e al tempo stesso scomoda in cui adesso si trova, cogliendo ogni sfumatura delle giornate che vivono, ma leggendo anche nei loro pensieri e nei loro stati d'animo, un po' come accade nelle sequenze de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, dove Damiel e Cassiel, due angeli caduti nella Berlino degli anni Ottanta, poco prima della fine della Guerra Fredda, vagano per le sue strade leggendo i pensieri dei passanti ma senza poter intervenire per aiutarli in caso di bisogno.
Eppure, malgrado le difficoltà, la vita di Elena e dei ragazzi si incanala sempre più lungo il sentiero della speranza. La speranza di una rinascita.
Cristina Luisa Coronelli