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"Dolorosa e straziande è stata la spartenza": la storia di un migrante siciliano

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La spartenza 
di Tommaso Bordonaro

a cura di Santo Lombino
prefazione di Goffredo Fofi

Navarra editore, 2013



È innegabile: le cosiddette «scritture semicolte» esercitano sui lettori un fascino irresistibile. Probabilmente perché sono la diretta testimonianza del fatto che un’urgenza tutta umana – quella di raccontare la propria vita e le proprie esperienze – non dipende in minima parte dagli studi o da qualsivoglia formazione artistica o letteraria. Tutti, in fondo, abbiamo bisogno di raccontare e di raccontarci, è solo questione di trovare il modo e il luogo per trasformare questo bisogno in parole. È quello che è successo a Tommaso Bordonaro, emigrato dalla Sicilia agli Stati Uniti nella seconda metà del secolo scorso e autore di una piccola gemma, un racconto autobiografico intitolato La storia di tuta la mia vita da quando io rigordo ch’ero un bambino, ripubblicato da Navarra col titolo La spartenza: titolo già scelto per la prima edizione di questo libro curata da Einaudi (1991) con una prefazione di Natalia Ginzburg e con un glossario, fatto che conferma l'interesse linguistico di questo libro, allestito dall'illustre filologo romanzo Gianfranco Folena (a proposito: colgo l'occasione per auspicare una correzione, nelle prossime ristampe dell'edizione, del nome dello studioso, erroneamente "Goffredo"). Il diario di Tommaso Bordonaro, ancora inedito nel 1990, vinse il Premio Pieve quale miglior diario inedito, lo stesso premio vinto dieci anni dopo da un'altra scrittura autobiografica siciliana "semicolta", quella di Vincenzo Rabito (Terra matta). 


La spartenza è un’autobiografia tradizionale nella sua organizzazione, animata da uno spirito semplice che spesso giustifica retrospettivamente le sue azioni: Bordonaro racconta la sua storia partendo dalle proprie radici, la miseria della sua famiglia nel paese siciliano di Bolognetta, la tragica fine del suo primo matrimonio, il secondo, l’emigrazione negli Stati Uniti per dare un futuro migliore ai propri figli, la vita americana tra stenti, screzi e disgrazie, la lotta per la sicurezza economica da vero working class hero. Il tutto in un italiano frammisto di forme dialettali e popolari, di «anglismi d'ogni genere» (Mengaldo) mutuati dagli anni trascorsi sul suolo americano.

Io in Italia stavo bene, non mi mancava nulla ero nella classe dei borgese, ma il mio pensiero era che avevo cinque figli maschi: e fattosi grande, io con cosa li potevo dotare? Se creavano una famiglia non avevano nessuno, né un’arte né una professione, quindi per vivere dovevano essere schiavi dei proprietari. Perciò io ho deciso assoluto andare in America non per il mio avvenire, perché io sapevo che dovevo trovare del pegio, ma per i figli poter fare tutte le scuole e potere imparare qualche professione e qualche mestiere e  non essere schiavo al lavoro e alla miseria.

La «spartenza», sostantivo scelto per il titolo di questo libretto, riassume in fondo tutto questo. I «canti di spartenza» (spàttiri in siciliano vuol dire “dividere, separare”) sono in Sicilia quei canti popolari che s’intonano quando ci si allontana dalla propria terra: canti che affondano le loro radici in una cultura millenaria – non solo in Sicilia: tutte le letterature, per lo meno quelle occidentali, hanno i loro canti di separazione o di lontananza –  e che con l’emigrazione hanno ripreso vita. Basta sfogliare i repertori di poesia popolare siciliana per trovare numerose tracce di questo antico dolore, rinnovato nelle parole di Tommaso Bordonaro: Dolorosa e straziande è stata la spartenza, scrive, e le pagine più belle del libro sono proprio quelle che raccontano la separazione dalla famiglia e il viaggio per mare.

Giorno 15, all’alba, alle ore 6 circa, salendo sopra vedo che abiamo lasciato lo stretto di Gibilterra e ci interniamo nel mare Oceano. I miei figli lasciano la febbre. Il mare continua sempre bello ma la nave fa piccoli sbalzi e si comincia a perdere l’appetito e si vedono dei pesci grossissimi. Alle ore 12 circa si vedono le coste della Nolvegia o altro nome che io non so. Alle ore 18 circa termina la vista dell’Eoropa sfiorando per ultimo le coste del Portogallo. Il mare un po’ mosso mio figlio Nino che sembra un cacciatore di mare che gira e rigira come un vecchio marinaio.

Per un attimo, ma forse è stato un miraggio, mi è quasi parso di poter scambiare Tommaso per un compagno dell’Ulisse dantesco. Svanito il miraggio, resta l’impressione di aver letto una storia personalissima – in cui regna incontrastato il particulare, come dice Santo Lombino nella sua prefazione – ma in cui si sente l’eco di un’esperienza collettiva, come ogni importante pagina delle letterature migranti, storie che raccontano, come dice un recente saggio di Ilaria Serra, "the value of worthless lives".