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#CriticaLibera - Dostoevskij: uno strabismo critico

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Nella storia della critica dostoevskiana esistono due visioni fondamentali e opposte: una che crede all’autore e una ai personaggi. Mai come in questo caso letterario ci si può trovare davanti ad un simile strabismo: Remo Cantoni sostiene che il sottosuolo è il luogo della libera espressione dell’individualità, Girard afferma che il sottosuolo non è altro che il luogo in cui la società frantuma e frammenta in mille frustrazioni e desideri contrastanti l’individuo. Chi ha ragione?
Nietzsche si era innamorato di Kirillov, personaggio nichilista e suicida ne I demoni, che impersona una cristologia negativa: determinazione al sacrificio supremo per la libertà dell’umanità, ma tutto senza un divino, né un’istanza di senso ultimo se non il non senso. Ma pensiamo anche al memorabile brano del grande Inquisitore: chi lo immagina e lo racconta e il diabolicamente luminescente Ivan Karamazov, nichilista. Uno, due e tanti altri nichilisti, magari suicidi, come personaggi più forti di opere di un panslavista ultra-ortodosso?
È innegabile che la pubblicistica di Dostoevskij sia colma di richiami ad una certa religiosità rigorista, ad un patriottismo eccessivo, eppure in tutto questo c’è la consapevolezza che non finisce tutto nella propria visione del mondo. La vera risorsa, inesauribile del narratore russo è questa: capire le ragioni del suo avversario, tentare perfino un dialogo, critico, polemico, ma mai sordo alle istanze dell’altro. Non solo, ma interiorizzarle, farsene ossessione e portarle alle estreme conseguenze.
Ma ho anche un piccolo capricetto intellettuale – uso per un attimo la prima persona, è di cattivo gusto lo so, ma spero mi perdonerete –: che molti critici abbiano intravisto e forse sperato che tutto il castello di opinioni sia il percorso di una abiura forzata e calcificata nel terrore, che insomma il grande romanziere, negli scritti giornalistici, ipercompensi una pulsione che lui in realtà sentiva ancora fortissima, quella del nichilismo rivoluzionario. Dove sta la ragione?
Qui le possibilità sono due, non sono solo due ipotesi critiche, ma anche umane, se non suonasse terribilmente retorico, si potrebbe dire persino spirituali:

-          Da una parte abbiamo un Dostoevskij illuminato dalla prigionia, che scopre l’animo profondo della sua nazione e che si converte alla religione ortodossa. Si ricollega, quindi, a quel pantheon russo a tre elementi in cui c’è terra, popolo e Dio, e, memore del suo passato, decide di difenderli con uno scavo interiore delle forze oscure della società. A sostegno di questa via c’è molta parte dei suoi articoli.
-          Dall’altra abbiamo un uomo piegato (d’altronde come giudicarlo: è arduo resistere ad una condanna a morte e a quattro anni di campo di lavoro in Siberia). Un uomo terrorizzato dal re-Dio che lo ha punito e allo stesso tempo salvato. Un uomo che si impone una conversione pur essendo «figlio della miscredenza e del dubbio». A testimone di questa visione ci sono alcune lettere e molti personaggi delle opere.

Dilemma insolubile? Forse. Eppure queste due figure potrebbero convivere in una mente ed essere fruttuose per la produzione romanzesca e artistica. Forse proprio la compresenza di questi due daimon ha reso davvero possibile la presenza di Alëša e Stravrogin nel stesso corpus narrativo. Forse, Dostoevskij non sa a chi dare ragione, se non all’ultimo, se non nelle parti finali e con una buona dose di ritrosia.

Di dovere va fatto un esercizio della mente anche di verso opposto: ma non è che questa scissione, questa dicotomia netta e contrastiva sta nei lettori del grande russo? Chi si immedesima con Ivan Karamazov vorrebbe che l’autore gli desse ragione anche perché Alëša è davvero irritante e risveglia vocine troppo scomode; chi gode nella disfatta di quel manipolo di errori che è la cinquina de I demoni vorrebbe la benedizione del genio Fëdor anche perché Stravrogin l’affascinante e luminoso principe è davvero troppo perturbante. Ma alla fine lui, l’autore, sfugge a tutti (potere zarista compreso!), lasciando il campo libero a quello che, sia nelle opere che nella pubblicistica, ha sempre portato avanti e vuol far risaltare: il dialogo e il confronto.