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Pillole di autore: Walter Siti, "Il realismo è l'impossibile"

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Alla serata finale del Premio Strega, il 4 luglio al Ninfeo di villa Giulia, giurati e critici hanno in più di un’occasione citato Il realismo è l’impossibile, un saggio di Walter Siti,  vincitore della sessantasettesima edizione con Resistere non serve a niente. Siti intraprende la strada del romanziere nel 1997 con Scuola di  nudo, ma nasce come critico letterario con una lunga carriera accademica tra gli atenei di Pisa, Cosenza e L’Aquila. 
Un saggio come Il realismo è l’impossibile potrebbe costituire la dichiarazione di poetica dello scrittore. In esso, Siti afferma l’inadeguatezza di una narrativa che dipinga la realtà esattamente come è.  Mi  tornano alla mente le parole di George Eliot  nel XVII capitolo di Adam Bede, intitolato In which the story pauses a little: la scrittrice afferma la sua missione di riportare sulla pagina le storie degli uomini, ma deve riconoscere che «this mirror is doubtless defective».
Il realismo, per come viene comunemente inteso, corre il rischio di diventare una forma sclerotizzata, manierismo, paradossalmente finzione. In tal senso, è interessante ricordare l’aneddoto citato da Siti e relativo a una recita di Molière nel Malato immaginario. Pare che tra il pubblico si mormorasse ‘’stasera non è morto bene’’. Un’osservazione stridente se si pensa che Molière morì di lì a qualche ora, dopo aver avuto un vero sbocco di sangue durante la rappresentazione. Inoltre, il realismo è motivo di inquietudine, poiché, come sottolinea Siti nel suo saggio, «spaventa e turba come un sacrilegio, perché assomiglia troppo alla creazione divina: Pigmalione può testimoniarlo, e anche Wilde che con quel terrore nel cuore ha visto decomporsi il ritratto del suo Dorian».

La ricerca ansiosa di un’aderenza alla realtà caratterizza il romanzo fin dalle origini. È il caso, per citare un esempio, del Robinson Crusoe, in cui Defoe tiene a specificare che si tratta del racconto di un vero naufragio, salvo poi subire i richiami di Charles Gildon che lo accusò di aver inserito nel romanzo elementi che non potevano essersi verificati e tacciò l’opera considerata l’inizio del romanzo moderno di romance. In tempi più recenti un altro grande romanziere, Antonio Tabucchi, ha riflettuto sulla natura della narrativa realista affermando, in linea con Siti, che «la funzione della letteratura è insinuare dei dubbi, ad affermare la verità ci pensano i teologi e i politici: la loro verità naturalmente, quella che gli conviene [...]. Essa è il dubbio sulla verità imposta dal pensiero dominante: il dubbio, come la letteratura, non è monoteista, è politeista».

Di seguito alcuni passa da Il realismo è l’impossibile (nottetempo, 2013, pp. 78):
Nel V canto del Purgatorio, le vicende di Pia de’ Tolomei sono evocate in modo talmente ellittico che non capiamo  bene che cosa le sia successo; nel XXIV, sempre del Purgatorio si accenna a certa "Gentucca" destinata in futuro ad addolcirgli l’esilio, ma nessun commentatore è riuscito finora a identificarla. Per gli stretti contemporanei di Dante i riferimenti dovevano essere chiari, gli omaggi o i dispetti politici spesso talmente precisi che i critici hanno assomigliato la Commedia a un instant book; ma Dante non voleva scrivere soltanto per i contemporanei, anzi ambiva a un pubblico universale ed eterno, come poi è stato. E noi crediamo alla verità del suo viaggio ultraterreno proprio perché non capiamo tutto nella vita. Ci fidiamo di lui come ci lasciamo guidare da Joyce per le vie di Dublino, ignorando i cantanti e gli sportivi che cita, le drogherie, gli aneddoti di cronaca ormai irrecuperabili; né sappiamo che siano o quel Novosilzof o quell’Haugwitz di cui cinguettano in francese le invitate di Anna Pavlova all’inizio di Guerra e pace, ma proprio questo ci attira nel tranello di credere che esista un mondo tutto intorno alle parole che leggiamo. Quando Balzac, nella Maison Nucingen, riesce  nel tour de force di scrivere un intero romanzo come una conversazione ascoltata dietro un tramezzo, sono proprio dei gossip che il lettore ignora a dare credibilità a quel che gli viene raccontato.
Insomma, o cogliere l’enciclopedia mentale del lettore in contropiede, o chiedere ai vuoti di quell’enciclopedia una credenziale in bianco ; sempre, comunque, lavorare più sui vuoti che sui pieni. Nel vero realismo la realtà non è mai qualcosa di ovvio: è sempre in status nascendi, un intarsio traforato e instabile che può crollare in un soffio se lo scrittore appena si distrae — come svaniscono in un soffio i castelli della magia. 
Fin che il lettore si identifica con quel che gli viene raccontato, non si ricorda di essere vittima di un gioco di parole e non si ribella all’inganno. Per ottenere questo risultato, il testo realista deve sapersi mantenere in equilibrio tra esigenze contrapposte: deve sferzare l’attenzione del lettore cogliendolo di sorpresa ma poi deve concedergli abbastanza elementi riconoscibili per non perderlo e tenerlo a ruota; deve giocare con la forma fino a farla apparire, se necessario, sottrazione o assenza di forma; deve cavalcare la dialettica tra prevedibile e non prevedibile, tra dettaglio spiazzante e sensazione di interezza, tra coerenza e anomalia.
Le nature morte del Seicento sono un prodigio di tecnica illusionistica, anche se gli studiosi vi identificavano argute sciarade simboliche (la noce spaccata col gheriglio esposto come figura di Cristo, le ostriche come emblema della sessualità eccetera). In  letteratura, molti dettagli sono esplicitamente funzionali al procedere della trama (il revolver che una volta o l’altra dovrà sparare) o all’illustrazione di un carattere (il ricciolo ribelle che sporge dal velo della Monaca di Monza); ma i particolari realistici in senso pieno, quelli che si moltiplicano da Flaubert in poi, i più vittoriosi e debordanti ma anche i più problematici, sono quelli non funzionali, quelli che non significano niente. Come il famoso barometro che, in Un cuore semplice, è appeso alla parete del salotto di Madame Aubain e che Barthes ha eletto a esempio di ciò che chiama ‘’effetto di reale’’.
Consideriamo questo barometro un po’ più da vicino: Barthes sostiene che non serva né a far progredire l’azione né a caratterizzare i personaggi, dunque il suo unico valore semiologico sta nel significarci ‘’io ci sono’’, sono lì perché la stanza di Madame Aubain esiste nella realtà. Un trucco da prestigiatore, un effetto che l’autore ottiene per puro cinismo mimetico.
Ricorro agli stereotipi quando non ho il coraggio di andare a vedere, anche sul piano della poetica il mio nemico è la paura. […] I luoghi comuni del realismo non devono preoccupare, sono tecniche ingenue e in quanto tecniche sono neutre: le cene le liti, i ricordi d’infanzia, gli inserti magnetofonici e gergali, le famiglie, i documenti rubati e le furberie col paratesto. Sono strategie, utensili che si perfezionano scrivendo. Quel che scrivendo si può disimparare, piuttosto, è a denudarsi e a mettersi in gioco ogni volta — la morte del realismo è fare della propria scrittura (o vita)  un oggetto reificato. Se dovessi trovare, per il realismo come lo intendo, un verbo riassuntivo, indicherei il verbo sporgersi.