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Ilaria Vitali, "La casa ai confini del tempo"

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La casa ai confini del tempo
Ilaria Vitali

0111 Edizioni, 2012
pp. 153
14,50


Tutti coloro che si sono accostati a “La casa ai confini del tempo” di  Ilaria Vitali, hanno parlato di romanzo di formazione, di fine dell’infanzia e, soprattutto, di mimesi perfetta del linguaggio infantile, così come si ritrova, ad esempio, nei libri di Niccolò Ammaniti o della scrittrice partenopea Ida Verrei. A nostro avviso, invece, si tratta di un’operazione molto più letteraria. Lo stile del testo, nella sua semplicità artefatta, è assolutamente, squisitamente, ricercato, non c’è realismo né aderenza al parlato o pensato infantile, bensì un surrealismo ricco di simboli, di allegorie: una forma studiata nei minimi particolari, che non lascia niente al caso, poetica e per nulla puerile.


L’undicenne Zoe passa un’estate nella casa dei nonni, in riva al grande fiume, nella pianura padana calda, languente e assolata. Intorno la vita scorre, è il 1992, tangentopoli spazza via la prima repubblica, ma Zoe e la sua famiglia sono sospesi in una bolla. I personaggi principali sono Zoe stessa, la madre, i nonni, l’amico vicino di casa, il di lui padre. Alcune comparse entrano ed escono di scena come attori su un palco: la cugina Iris, i carabinieri, gli zingari. Non c’è niente di realistico, niente di “normale” in ciò che accade, tutto ha un significato nascosto.
C’è un’altra figura che giganteggia nella sua assenza, e si ridimensiona - addirittura si schiaccia - nella sua ritrovata presenza: il padre di Zoe, il perno della storia, colui che, con la sua condotta, ha messo in moto la catastrofe, ha provocato il rimosso, quella che la madre di Zoe ora chiama “la traversata”.
Da un po’ di tempo succede che le cose mi parlano”, esordisce Zoe. Sì, le cose parlano a chi sa ascoltare, le cose hanno aspetti nascosti, surreali, come in quadro di Magritte o di De Chirico. La casa è “una casa treno” capace di spostarsi su una linea ideale che dovrebbe portare avanti, nel futuro, ed invece torna sulle orme di un passato cancellato, rimosso. La caffettiera sanguina, le scale si rompono, i muri si crepano, i tulipani si suicidano. Anche Zoe stessa guarda la realtà da una prospettiva irreale, facendo la verticale contro il muro a testa in giù, o rimanendo immobile e muta come l’erba.
“Comunque, il fatto delle cose che mi parlano succede da qualche mese. Da quando ho compiuto undici anni, per la precisione. Di notte, per esempio, sento strani rumori. Lo so che sono loro. È legno che scricchiola, muro che crepa. Il tavolo vuole tornare albero e il cemento sabbia di mare.” (pag 6)
La ragazzina cresce, scopre il mondo dei grandi, razionalizza e ironizza ma lo fa in un modo che, pericolosamente, sfiora la possibilità della follia. Manca poco a che le cose parlanti si trasformino in pericolose voci nella testa, che l’immobilità del fingersi erba diventi mutismo irreversibile.
A salvarla, però, c’è Mujo, “un’oasi di luce nel buio”, lo zingaro, il reietto, l’anima nella quale Zoe si riconosce e che la tiene avvinta alla realtà.
Io e Mujo siamo quasi sui binari, i nostri passi bucano il buio, sicuri. Ormai nessuno può fermarci. Questo è il kairos, il momento giusto.”(pag 151)
 Kairos, dunque, e non un amoretto infantile qualunque, non i primi battiti del cuore.
Questa notte soffia il vento in un posto dove il vento non soffia mai e ogni cosa è concessa.” (pag 151)

Eppure, questa narrazione tutta simboli e segni, questo “mandala profano disegnato dal caos”, come lo definisce l’autrice stessa, è anche terribilmente avvincente, ti trascina da un breve capitolo all’altro, nell’attesa dell’epifania, della rivelazione che rende quell’estate così diversa dalle altre e fa sì che le cose parlino a Zoe. È l’evento che dovrà accadere, l’enigma da svelare, l’imponderabile che si concretizza nella sineddoche di un braccialetto, di una linea sul muro a delimitare una crescita bloccata  metà.
Ed è anche questo linguaggio così pieno di significati, spigliato e divertente, ironico e godibile, a riprova di un talento narrativo pieno di promesse ma già maturo e affilato, di quelli che, di solito, non ti aspetti in un esordiente.