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Rudimenti mitologici di antropologia siberiana: l'educazione di Nicolai Kolima

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Educazione siberiana
di Nicolai Lilin

Einaudi, 2009


Non si riusciva ad ammazzare 'sto pollo, per la zuppa della mamma. A turno tutti si meritarono una beccata, il giovanissimo Kolima (a cui era stato affidato il compito di sgozzarlo), il papà e lo zio. Alla fine gli adulti si decisero a lasciarlo vivere. 

«La sera ho raccontato a mio nonno quello che era successo. Lui ha riso tanto, e poi mi ha chiesto se io ero d'accordo con la decisione di mio padre. Gli ho risposto con una domanda: - Perché liberare quel pollo e non gli altri? Nonno mi ha guardato con un sorriso e ha detto: - Solo chi apprezza veramente la vita e la libertà, e combatte fino in fondo, merita di vivere libero... Anche se è un semplice pollo. Io ci ho pensato un po' su e gli ho chiesto: - E se tutti i polli un giorno diventano come lui? Dopo una lunga pausa nonno ha detto: - Allora bisognerà abituarsi a cenare senza zuppa di pollo.»

Nel 2009 Einaudi pubblica Educazione siberiana, il primo romanzo in lingua italiana del criminale onesto Nicolai Lilin, nato in Transnistria nel 1980 e residente da alcuni anni nel Piemonte. Fin da subito dichiaro che è un testo in cui mi sono imbattuto, come ci s'imbatte in un ciottolo smerigliato. La copertina del romanzo ritraeva il profilo di Kolima in una fotografia scattata nell'ombra da Stefano Fusaro. Quindi ho notato il tatuaggio che portava sul collo, una croce e un libro aperto che emergono da alcune fiamme appena accennate. Infine ho letto il titolo che mi ricordava da vicino l'Educazione sentimentale di Flaubert e la Ciropedia di Senofonte.
Non discuto le recensioni demolitorie dei giornalisti del Fatto Pontiggia e Armano, che hanno provato a svelarne i falsi storici e i cliché sulla malavita siberiana di cui sarebbe intriso il racconto, anche in prospettiva del film di Gabriele Salvatores prodotto da Cattleya e RaiCinema (che è uscito ieri sul grande schermo). D'altronde il giornalismo ha un'altra missione, altre regole. Il censore è un ruolo infelice, il recensore invece si augura di non portare pena. Dico solo che quando leggo un romanzo non indosso gli stessi occhi che mi servono per leggere i commentari di Cesare. Quindi sposo lo stesso interesse antropologico di Roberto Saviano, che accolse con entusiasmo la comparsa di Lilin sulla scena confusa della contemporanea letteratura europea.
In esergo si legge un antico detto degli Urca siberiani: «C'è chi si gode la vita, c'è chi la soffre, invece noi la combattiamo». Questa sentenza, manichea e primordiale, si radica in realtà nel codice etico della criminalità. Questo codice viene trasmesso da Lilin nella forma di un diario di guerra sui generis, nel quale confluiscono di necessità le istanze documentarie di una vita violenta – la sua – e l'afflato epico-romanzesco che è croce e delizia di ogni scrittura autobiografica. Si badi, la lettura di questa Educazione non deve essere sprovveduta: occorre sapere che la comprensione è accessibile solo quando sospendiamo il giudizio e il preconcetto. Va accettata la teoria e l'esecuzione di un'etica dei lupi, pre-civile, un'ortoprassia appresa dai vecchi saggi, per via orale.
«...avevo imparato che nella mia famiglia, per sopravvivere e avere possibilità di prosperare, bisognava sempre essere d'accordo con il nonno, anche nei casi che oltrepassavano il limite delle capacità intellettuali...»
Ogni criminale adulto, infatti, affida alle parole e ai gesti dei vecchi l'apprendistato dei suoi figli. Questo rapporto tra vecchi e bambini 
«in lingua siberiana viene chiamato “intagliare”, per la somiglianza che c'è tra l'educazione di un giovane e la lavorazione di un ceppo di legno».
Le storie di questi uomini in guerra contro la giustizia istituzionalizzata e contro l'incipiente depravato costume occidentale prolificano sulle ceneri dell'odiata URSS. Lo sfondo geopolitico e storico di queste vicende è volutamente rarefatto, impreciso, lontano. Questa regione della Transnistria, il luogo dell'esilio di questi clan con il cuore cattivo non è più. Ne restano alcune immagini nei racconti degli anziani e nella pelle simbolizzata dei guerrieri. Le dinamiche di incontro/scontro tra carcerati e carcerieri, tra poliziotti e criminali di quartiere, tra criminali e criminali si ribadiscono a ogni pagina, sembrano tappeti narrativi intercalati da stralci intimistici in cui si snoda la formazione di Kolima e dei suoi compagni. Il sangue dell'epopea, a cui non è estraneo quell'innato gusto del paesagire – rubo al fecondo lessico di Andrea Zanzotto! – non scurisce il lascito della cultura siberiana nel cuore dei suoi giovani accoliti: essa vi ha instillato l'accettazione di tutti i reietti, di coloro che al di fuori della comunità dei nativi siberiani erano reputati anomali, malati mentali e compagnia cantante. La fratellanza. Al contrario, loro incarnano l'idea di una purezza naturale, l'esperienza del sacro – per dirla con R. Otto – che va difesa a spada tratta, anzi a picca tratta. Il gergo di questi criminali onesti, del resto, è impregnato di esclamazioni, preghiere ed etichette sacrali, di una religione cristiana ortodossa che giustifica e fonda l'etica siberiana. Osservare la coerenza con cui Kolima e i suoi applicano la giustizia criminale (loro come la longa manus del Salvatore Gesù Cristo) susciterà certo sgomento per i deboli di stomaco, ma pure fascinazione; giacché in quel codice incivile di leggi il disonesto non trova mai vie di fuga. È quando si prevarica il confine della libertà individuale che la lotta diviene imperativa. Lo dice nonno Kuzja: «...una parola gentile taglia e colpisce meglio di ogni coltello».
«...la guerra la fa chi non segue i principi veri, chi non ha dignità. Perché non esiste niente a questo mondo che non possa essere condiviso in modo da accontentare tutti. Chi vuole troppo è un pazzo, perché un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore riesce ad amare». 


L’approdo finale di Nicolai Lilin alla fallacia della giustizia umana è la chiave di un anti-romanzo di formazione, i processi di incivilimento decadono perché dimenticano la storia della tradizione. Non vale altro messaggio, dopo tutto.

A. Gatto Ferraro