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CriticaLibera: Calvino e il fantastico

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Nel 1982 Italo Calvino ricevette il premio World Fantasy Award. L’interesse per il fantastico, e la fiaba in particolare, attraversa tutta la sua produzione letteraria, prova ne sia che fu incaricato di raccogliere in un libro le fiabe della tradizione popolare. Il suo “Fiabe italiane” contiene, infatti, 200 storie del folklore di tutte le regioni d’Italia.
Per la sua narrativa, l’amico Vittorini, col quale diresse dal 59 al 65 “Il  Menabò”, parla di “realismo con carica fiabesca.” Vittorini stesso, insieme a Pavese, è uno degli autori che maggiormente influenzò Calvino.
La prima opera, “Il sentiero dei nidi di ragno” del 1947, ha per protagonista Pin che, con le sue avventure partigiane, è una figura picaresca. La ricerca dell’oggettività non scade mai in cronaca, è sempre presente la dimensione mitica e fiabesca. Il romanzo s’inserisce nel felice filone, fantastico e avventuroso, di narrativa ispirata all’infanzia (iniziato nel clima della rivista Solaria già negli anni trenta.) Qui Calvino comincia a sperimentare la dissociazione dei livelli di lettura, con la mescolanza di forme colte e popolari.
Anche i racconti di “Ultimo viene il corvo”,
del 1949, rivestono le vicende della resistenza di un tono favoloso, che rivela l’originalità con cui Calvino si muove all’interno del neorealismo, pure evidente, quest’ultimo, in certe crudezze realistiche. Calvino ha, infatti, percorso tutte le tendenze letterarie del novecento, dal Neorealismo al Postmoderno, restando sempre a distanza critica, in un percorso soggettivo.
Favola e storia, che nei libri giovanili erano unite, si dividono. Da una parte Calvino prosegue sulla via della conoscenza storica, in racconti come “L’entrata in guerra” (1954), “La speculazione edilizia” (1957), “La giornata di uno scrutatore” dall’altro sperimenta la favola. Anche la prima strada, tuttavia, non è di tipo davvero naturalistico e Calvino la abbandona definitivamente per il fantastico, scegliendo personaggi irregolari, fuori dalla realtà storica.
Il visconte dimezzato”, del 1951, è la storia di un tale che torna dalla guerra ridotto la metà di se stesso, tagliato per il lungo. La metà sfuggita è viva ed è la parte buona, il dimezzato invece è crudele. Le due metà si battono a duello e infine ricostruiscono un uomo intero. La narrazione procede su due piani: quello letterale-narrativo e quello simbolico-allegorico.
Il barone rampantedel 1957, è la storia di un ragazzo, Cosimo di Rondò, che sale su un albero per gioco e decide di non scendere più a terra. Saltando da un albero all’altro trascorre tutta la vita e riesce anche ad assistere ad avvenimenti storici come la rivoluzione francese e le guerre di Napoleone. A mezza strada fra cielo e terra, in posizione ottima per vedere e giudicare, egli crea il pathos della distanza che in Calvino è garanzia di conoscenza pura, non contaminata, ed è anche, insieme, segno di alienazione dell’uomo e della ragione illuministica.
“La sostanza della favola vuol essere, insomma, salvaguardia dell’utopia e della ragione. Essa è assurta, infatti, come modello sulla scorta di Propp, di Levi-Strauss e poi della semiologia.” (R.Luperini)
Marcovaldo ovvero le stagioni in città”, del 1963, è un libro ambiguo, sospeso fra invenzione e ideologia. È composto di 20 novelle, ogni novella dedicata ad una stagione. Il ciclo delle 4 stagioni si ripete nel libro per 5 volte.
Tutte le novelle hanno lo stesso protagonista – Marcovaldo appunto – figura buffa e malinconica, e seguono lo stesso schema che ricalca la struttura narrativa delle storielle a vignette dei giornalini per l’infanzia. In mezzo alla città di cemento e asfalto, Marcovaldo va in cerca della natura. Quella che egli trova è una natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale.
Marcovaldo non è ben definito, è un semplice, un uomo di Natura, forse un immigrato.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che s’impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.”
Lo schema delle novelle è preciso:
Marcovaldo sente il riaffiorare delle stagioni nelle vicende atmosferiche e nei minimi segni di una vita animale e vegetale all’interno della grande città - Sogna il ritorno allo stato di natura - Va incontro a un’immancabile delusione. La vignetta finale è a sorpresa (anzi a brutta sorpresa) come sui giornalini degli anni 60, nelle storielle brevi. A volte i racconti sono amari, quasi realistici, fino ad arrivare a quelli in cui stato d’animo e paesaggio sono predominanti (“Il coniglio velenoso”, “La foresta sbagliata”). Come per sottolineare il carattere di favola, i personaggi di queste scenette – siano essi spazzini, guardie notturne, magazzinieri – portano tutti nomi altisonanti, medievali, da eroi di poema cavalleresco. Solo i bambini hanno nomi normali, perché non sono caricature.
La città non è mai nominata, ma potrebbe essere Milano, o meglio, Torino, per il fiume e le colline. Non è una città ma è la città, astratta e tipica come le storie raccontate, e come la Sbav, la ditta dove Marcovaldo lavora.
A contrasto con la semplicità quasi infantile della trama di ogni novella, lo stile è basato sull’alternarsi di un tono poetico-rarefatto, quasi prezioso, quando si parla della natura, e di un tono prosastico e ironico quando si parla della vita urbana. Quindi, nel linguaggio, la natura è collegata alla poesia, mentre la città alla prosa.
Lo spirito del libro è proprio in questo contrappunto stilistico spesso concentrato nella prima frase delle novelle, che ha sempre la funzione di introdurre il tema stagionale.
“Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.”
Spesso, ogni particolare è pretesto per un brano di elaborato impegno stilistico.
Marcovaldo tornò a guardare la luna poi andò a guardare un semaforo che c’era un po’ più in là. Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e riaccendersi. Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col suo pallore misterioso, giallo anch’esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il semaforo con quel suo gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la sua luce senza fretta, venata ogni tanto di sottili resti di nubi, che lei con maestà si lasciava cadere alle spalle; e il semaforo intanto sempre lì accendi e spegni, accendi e spegni, affannoso, falsamente vivace, stanco e schiavo.”
È una tecnica che ci ricorda Pasolini di “Ragazzi di Vita” (1955): l’estrema semplicità, e il ripetersi quasi infantile del linguaggio, rispecchiano la mente ingenua del protagonista, ma il lirismo della descrizione appartiene tutto dell’autore. “Stanco e schiavo” non è solo il semaforo ma anche Marcovaldo.
In racconti come “Il giardino dei gatti ostinati”, anche l’intreccio è elaborato quanto lo stile. Caratterizza tutta la narrazione una grande malinconia insieme a una vena lirica dolorosa, anche se Marcovaldo non è mai pessimista ed è sempre pronto a ricominciare.
La critica della civiltà industriale si accompagna a una altrettanto decisa critica di ogni “sogno di paradiso perduto”. L’amore per la natura del protagonista è solo quello che può nascere in un uomo di città. Noi non sappiamo da dove viene Marcovaldo, ma l’estraneo alla città è proprio il cittadino per eccellenza. La natura, quella vera, è ostile quanto la città, specie per chi non la conosce davvero.
Il libro è stato scritto nell’arco di dieci anni, dal 52 al 63. Le storie di Marcovaldo iniziano quando la grande ondata del neorealismo già accenna al regresso. L’Italia presentata nei racconti non è più indigente ma sulla via di allinearsi con gli altri paesi industrializzati, mentre sta nascendo l’illusione del boom economico e in letteratura cambiano le tendenze. Non si denuncia più, infatti, la miseria, quanto l’aridità di una società tecnologica mercificata. Uscirà solo due anni dopo “Il Padrone” di Goffredo Parise, altro esempio di realismo-favoloso.
Le novelle non sono mai veri apologhi perché, all’ultimo momento, lo scrittore si tira indietro e lascia al lettore la libertà di riflettere e scegliere (vedi la chiusa dell’ultima novella che termina sulla pagina bianca del libro che il lettore ha fra le mani).
Le Cosmicomiche”, del 1965, comprende 12 racconti. “Per parlare di cosmogonia abbiamo bisogno di uno schermo, di un filtro e questa è la funzione del comico”, dice Calvino. Ecco il perché del titolo cosmi-comiche. Il protagonista Qfwfq, prima mollusco, poi dinosauro, poi uomo è il simbolo della memoria del mondo. Qui, come in “Ti con Zero”, del 1967, il gusto picaresco diventa avventura fantascientifica.
Il racconto dialogo Le città invisibili”, del 1972, che si rifà alla letteratura utopistica di Borges e Vittorini, è ispirato all’impossibilità di comunicare fra diverse culture. Solo il sogno può colmare il vuoto della parola. Il dialogo fra Marco Polo e Kublai Khan simboleggia l’impossibilità di giungere al cuore dell’altro da sé, con i soli mezzi della realtà e della logica. In quest’opera Calvino ritma la narrazione fino a rendere la prosa poesia. Egli ha, infatti, grande amore per la musicalità delle parole.
InfineSe una notte d’inverno un viaggiatore, del 1979, documenta proprio la crisi della favola allegorica e utopistica. I 10 incipit di altrettanti romanzi testimoniano una perpetua sospensione del senso e alludono ad una situazione (ripetuta in 10 forme diverse) di sdoppiamento e di crisi d’identità in una atmosfera di minaccia incombente. Il lieto fine delle nozze del lettore con la lettrice, e la struttura circolare, sono solo apparenti. Calvino si diverte a catturare l’attenzione del lettore con storie sempre diverse, ricorrendo ai collaudati meccanismi del romanzo di consumo, per poi deluderla. Il romanzo contiene effetti di straniamento quasi brechtiano tesi a suscitare l’attenzione critica del lettore contro l’inganno della letteratura. È il maggior esperimento metanarrativo di Calvino, iniziato già col racconto “I figli di Babbo Natale”, e mira a rendere visibile ai lettori la struttura stessa della narrazione.
Patrizia Poli
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Riferimenti: 
Romano Luperini, “Il Novecento”, Loescher Editore
Monica Lanfranco, “Ricordando Italo Calvino”, Dimensione Cosmica, Anno 2, N° 9
Italo Calvino, “Marcovaldo” , G. Einaudi Editore, presentazione e note a cura dell’autore.
Salinari Ricci, “Storia della Letteratura Italiana”