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Noi lo chiamavamo amore...

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Chiedi alla polvere
John Fante
Torino, Einaudi, 2004

John Fante, insieme a Charles Bukowski, rappresenta per un’intera generazione un veicolo umano capace di creare una letteratura che è immortale miscela di ribellione e senso di straniamento; è chiaro che due fortezze simili possono generare epigoni di qualità nettamente inferiore oppure, nel peggiore dei casi, far sì che le loro parole vengano carpite da chiunque per farne un uso personale ed improprio. Queste, però, sono sterili lamentele del sottoscritto, che però ritiene “Chiedi alla polvere” di John Fante, abruzzese di origine ma americano d’adozione, uno dei migliori libri del secondo Novecento. Il ciclo di storie legate al personaggio di Arturo Bandini, presente già in altri romanzi di Fante (su tutti, “Aspetta primavera, Bandini”), trova in “Chiedi alla polvere” una certezza inequivocabilmente inscindibile. Arturo Bandini è la Vita, che si scontra con una Morte fatta di lampi e agguati nel vuoto. Il giovane ventenne italoamericano si innamora di una donna, Camilla Lopez (uno dei personaggi più belli degli ultimi anni), che è croce e delizia del suo stesso vivere, che lo plagia nel più incantevole dei modi possibili, con le armi dell’amore. Una relazione distorta, posticcia ed iraconda, che però li tiene uniti con un vincolo di rabbia e disgusto che grida vendetta nei confronti di tutti gli amori da operetta che dominano le letterature d’ogni tempo. L’amore di due reietti, sui quali aleggia l’odore crudo e impassibile dell’inferiorità sociale, che aiuta Bandini a superare gli ostacoli del suo triste e sopraffino dibattito interno, ma che non fa nulla per salvare Camilla, giocoforza condannata ad una crudele condanna che sa di polvere.
Sarebbe errato escludere l’ipotesi di “Chiedi alla polvere” come se si trattasse di un Bildungsroman della contemporaneità: in fondo il percorso di Bandini all’interno del romanzo è un esclusivo, contraddittorio itinerario che lo porterà ad un qualche traguardo, non per forza visibile nella pubblicazione del suo romanzo.
La prosa di Fante è geniale nella sua apparente linearità, nel suo disporre educatamente ed elegantemente parole bellissime e semplici, dicotomie non unificabili ma armoniose. Leggendo Fante ci si rende conto di essere quasi arrivati ad un’idea di perfezione letteraria contemporanea; questo però non ci astiene dalla sensuale dolorosità di questo libro. Chi non ha ancora avuto il piacere di viverlo, di annusare l’odore del rischio e del pericolo che nuota tra le sue pagine, ha decisamente perso molto.

Giuseppe Paternò Raddusa