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"Non dirmi che hai paura" di Giuseppe Catozzella

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Non dirmi che hai paura
di Giuseppe Catozzella
Feltrinelli, 2014

pp. 236
15 Euro



«Ecco, per esempio, la guerra mi ha portato via il mare. Però, in compenso, mi ha fatto venire voglia di correre. Perché grande come il mare è la mia voglia di andare. La corsa è il mio mare».
A Mogadiscio le spiagge dell'Oceano Indiano sono sorvegliate dai miliziani, anche solo avvicinarsi è pericoloso. I ragazzini ci sono abituati a questi divieti così come sono abituati, o fingono di esserlo, ai colpi di mortaio, ai quartieri devastati e, in generale, alla violenza che danni infiamma la Somalia. 
Ma Samia ha la corsa, un dono che la fa arrivare lontano come racconta Giuseppe Catozzella (Milano, 1976) nel suo romanzo Non dirmi che hai paura, ispirato alla vita dell'atleta olimpica Samia Yusuf Omar, finalista del Premio Strega 2014 e già vincitore nella categoria Giovani.
Cresciuta nel quartiere di Bondere in una famiglia di etnia abgal, fin da bambina si allena ogni giorno insieme al migliore amico Alì, il suo primo allenatore, che le prende i tempi e la prepara ad essere una campionessa: «Devi imparare a volare, Samia,» mi ripeteva sempre. «Se impari a volare batti tutti» . Grazie al sostegno della famiglia Samia inizia a distinguersi nelle gare nazionali coltivando il sogno di conoscere Mo Farrah, l'atleta inglese di origine somala campione del mezzo fondo.



«Tutto è bianco a Mogadiscio. I muri degli edifici, bucherellati dai proiettili o mezzi abbattuti dalla granate, sono quasi tutti bianchi, o grigi, o ocra, o giallini; o comunque chiari».

Le condizioni del paese diventano sempre più restrittive e molte aree della Somalia si ritrovano sotto il controllo di Al-Shabaab, letteralmente i giovani, un gruppo integralista che esige il rispetto assoluto della legge coranica e nel quale molti ragazzi si arruolano in cambio di tre pasti al giorno e istruzione.
L'odio fomentato dagli insurrezionalisti serpeggia anche nella vita di Samia. Nassir, il fratello di Alì, si unisce ad Al-Shabaab seguendo l'amico Ahmed. Dopo tempo Samia scoprirà che lo stesso Alì ha dovuto cedere alle pressioni degli integralisti commettendo un tradimento che la giovane non dimenticherà mai.
«Da un giorno all'altro le tradizioni del nostro paese sono cambiate. La terra del sole e dei colori si è trasformata in un campo d'addestramento a cielo aperto per estremisti. Tutti i nostri garbasar, i jamar, gli hijab colorati non andavano più bene. Si potavano usare per lavare il pavimento. Avevamo l'obbligo di indossare il burqa nero, quello che lascia scoperti soltanto gli occhi».
Samia è abbastanza forte nei duecento metri, la sua specialità, da arrivare fino alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Non ha una tuta adatta, solo un paio di scarpe smesse dai fratelli e la fascetta regalo del padre, ma gareggia fianco a fianco di Veronica Campbell-Brown e le altre donne più veloci del mondo. 
Si piazza ultima. Troppo gracile rispetto a chi si allena professionalmente, Samia a Pechino ci è arrivata, ha rappresentato il suo paese, ha fatto il giro d'onore avvolta dalla bandiera di casa: 
«Un giorno sarei riuscita a vincere le Olimpiadi, e lo avrei fatto da donna somala e musulmana.Con il volto scoperto e gli occhi rivolti verso il cielo.Dentro una telecamera avrei parlato a tutto il mondo di cosa significa combattere senza mezzi per raggiungere la liberazione».




Tutti in Somalia conoscono il Viaggio. Anche Hodan, la sorella di Samia che Giuseppe Catozzella ha conosciuto, l'ha fatto e oggi vive con la famiglia in Finlandia.
Sono ottomila chilometri in cui si guarda la morte da vicino e si affidano risparmi e sogni a trafficanti senza scrupoli.
Samia sa che la Somalia non è più la terra dell'infanzia quando si giocava facendo finta di niente, è oramai schiava dell'odio. Per spiccare il volo deve lasciare indietro la paura e affrontare il deserto.
Disagi continui, imbrogli, malattie e morte segnano il tratto infinito che la portano in Libia e da lì verso l'Italia, questa volta per mare:
«Mai nella vita ho amato parlare come nel lungo periodo che ho passato a Tripoli. Abbiamo formato squadre per nazionalità e ci siamo sfidate a carte, ognuna ha insegnato alle altre i propri modi di giocare e poi abbiamo litigato sulle regole. Ci siamo insegnate parole sulle rispettive lingue. Ci siamo raccontate delle nostre famiglie, delle nostre case, dei nostri genitori, dei fratelli, dei nostri amori. Dei piatti preferiti. Ci siamo chieste come avremmo mangiato da schifo in Europa. Ci siamo domandate come sarebbe stata la gente. Ci siamo immaginate le case che avremmo avuto. Le cucine. I bagni con la vasca e la doccia. La moquette per terra oppure il parquet. E poi i lavori. Io sarei stata un'atleta. C'era chi sognava di fare l'avvocato, chi la maestra, chi l'infermiera e la pediatra. Chi invece voleva soltanto una famiglia. Ci tenevamo compagnia con i rispettivi progetti. E poi pensavamo anche alle cose pratiche. A come partire. Per l'ultima volta».

È il 2 aprile del 2012 quando, dopo l'ennesimo ritardo, trecento migranti si imbarcano su un vecchio mezzo per raggiungere le coste di Lampedusa. Basta un'avaria e la paura che i soccorritori possano ricondurli indietro che in molti si buttano in mare. Anche Samia lo fa, sfidando ancora una volta la vita pur di non rinunciare alla sua libertà: «Vola, Samia, vola come il cavallo alato fa nell'aria». risuonano nella mente i versi delle canzoni composte dal Hodan apposta per lei
Per Samia manca poco alla meta dopo mesi di Viaggio, muore nel Mediterraneo durante l'intervento dei soccorsi italiani
Oggi il ricordo di Samia sta facendo il giro del mondo, anche in Somalia, dove lo scorso 20 giugno 2014 l'ONU ha organizzato alcune conferenze in onore dell'atleta in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato.
Grazie a Giuseppe Catozzella Samia Yusuf Omar è diventata la testimonianza di un dramma che sollecita la responsabilità di tutti.