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"Canada", un capolavoro firmato da Richard Ford

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Canada
di Richard Ford

Feltrinelli, 2013

recensione a cura di Marco Caneschi e Laura Ingallinella


Lo diciamo senza troppi fronzoli: Canada, l’ultimo romanzo di Richard Ford, è un vero capolavoro. Che ci troviamo dinanzi a un grande libro lo si capisce già dalle prime battute, che sottintendono antecedenti e conseguenze drammatiche con la chirurgica precisione di una testimonianza messa agli atti: «Prima di tutto parlerò della rapina commessa dai nostri genitori. Poi degli omicidi, che avvennero più tardi». Dell Parsons, il protagonista del romanzo, ci comunica subito che la sua vita è stata stravolta da grandi sconvolgimenti: una rapina, commessa per di più dalle persone che nella vita di un ragazzo contano di più, e delle morti violente che restano soltanto un presagio da consumarsi nella grande traversata di Canada.

Perché in questo romanzo ce n’è di roba: si tratta di una lettura che richiede pazienza, il lettore deve pian piano adeguarsi al respiro della scrittura di Ford, che è il respiro – di più: è l’esplorazione, come in uno scavo archeologico, degli alveoli che in profondità animano quel respiro – della vita di Dell, i suoi luoghi, i suoi incontri. Non è che a pagina dieci Ford ti aggredisca con fughe e arresti o colpi di rivoltella. Muove lo spartito con lentezza, procede secondo un processo fisico spontaneo ma che richiede i suoi tempi: scava dentro stati d’animo e dinamiche individuali e poi sociali, propedeutiche ai primi dirompenti avvenimenti decisivi, dai quali poi retrocede quasi in un limbo, un’attesa sospesa rotta dalla scarica che manda in cortocircuito le vite. Solo allora si può passare la frontiera, virtuale più che geografica, da Great Falls, Montana, al Saskatchewan e mettere in moto la reazione successiva, ma sempre come un alambicco che stilla goccia dopo goccia. Perché prima di arrivare ai famigerati omicidi c’è da delineare, sezionare, stagliare la magnifica figura di Arthur Remlinger, un grande Gatsby del XXI secolo che lascia frac e feste d’élite per rivestirsi di violenza. Soltanto nella terza e ultima parte del libro, la più breve, Dell Parsons smetterà i suoi panni di testimone per raccontarci il suo presente dopo gli oscuri avvenimenti che hanno segnato la sua adolescenza: un attempato insegnante trapiantato in Canada dai nativi Stati Uniti.
A questo proposito, una piccola parentesi: non lasciatevi ingannare dal giudizio di Niccolò Ammaniti in quarta di copertina, perché quel giudizio – «Richard Ford ha fatto un miracolo, si è reincarnato in un adolescente degli anni sessanta e ha raccontato la provincia americana come pochi hanno fatto prima» – dimostra che l’illustre lettore non ha capito granché del romanzo e del suo narratore. Il narratore di Canada, infatti, è tutto meno che un adolescente: è un uomo avanti negli anni che torna a fare i conti col suo passato per caso, grazie a un banale scherzo dei suoi studenti, e che scandaglia questo passato sotto l’impietosa luce dell’esperienza, una luce asettica, che tradisce una vita di domande sedimentate negli anni. Perché sì, d’accordo, in Canada c’è un ritratto della provincia americana degli anni Sessanta, di una famiglia, se vogliamo indirizzata verso la nuova frontiera kennediana, se non che… è proprio questo se non che ad affascinare, scandito da una parola che appare di tanto in tanto fra le righe, «mistero», accanto ad altre che ricorrono con un’altissima frequenza, «fatti», «fenomeni», «conseguenze». Canada è infatti un lungo percorso a ritroso per rispondere alle domande più difficili per un uomo: perché è andata così? Quanto, nel destino di un uomo, è frutto delle sue scelte o di una via già tracciata? Queste scelte, giuste o sbagliate che siano, sono davvero espressione della propria natura o obbediscono alla casualità, a improvvise rivelazioni o a provvisorie condizioni ambientali? Canada, come altri grandissimi romanzi della tradizione americana, è un romanzo che s’interroga sulla libertà e sulla predestinazione, a partire dalla scoperta, parte della Bildung di ogni ragazzo, dell’infallibilità dei propri genitori. Dice Dell a proposito di suo padre:

In tutti questi anni ho pensato ai suoi occhi, e a come diventarono così diversi. E poiché tante cose stavano per cambiare a causa sua, ho pensato che forse un potenziale lungamente represso e trattenuto dentro di lui fosse finalmente riuscito a farsi luce sul suo viso. Stava diventando la persona che avrebbe sempre dovuto essere. Doveva solo scavare negli altri strati per arrivare all’uomo che era veramente. Ho visto questo fenomeno nei volti di altri uomini: uomini senza casa, uomini abbandonati sul marciapiede davanti a un bar o in un giardino pubblico o un’autostazione, o in coda davanti alle porte delle missioni, in attesa di entrare per sfuggire a un lungo inverno. Nei loro volti – molti di essi erano belli, ma sciupati – ho visto i resti della persona che erano quasi riusciti a diventare ma che non avevano potuto essere, prima di diventare se stessi. È una teoria del destino e del carattere che non mi piace e alla quale non voglio credere. Ma è lì, dentro di me, come un minaccioso promemoria. In effetti, non vedo mai un uomo così conciato senza dirmi silenziosamente: Ecco mio padre. Mio padre è quell’uomo. Lo conoscevo.



La risposta agli interrogativi di Dell è in fondo molto delicata: se tutto va per il verso giusto avremo una vita normale e atteggiamenti mediamente riconducibili alle regole sociali, altrimenti, per ogni ombra che si addensa, s’innesca una rovinosa slavina di conseguenze che può determinare la caduta di un uomo… fin quando per alcuni le tenebre prevarranno senza speranza. Ma come possa accadere l’uno o l’altro destino resta non razionalizzabile. Non c’è qualcuno che ci ama, lassù, semmai ci guarda, sogghigna, simile a un fachiro che gioca col cobra.

…scorgemmo sulla strada un grosso coyote con un coniglio in bocca. Si fermò a guardare la nostra macchina che si avvicinava, e con due passi sparì nella foresta di frumento. Vedemmo quella che secondo nostro padre era un’aquila reale, sospesa nel cielo perfettamente blu, ostacolata dai corvi che volevano scacciarla. Vedemmo tre gazze che beccavano un serpente mentre si affrettava ad attraversare il nastro di asfalto. Nostro padre sterzò per schiacciarlo, cosa che fece sobbalzare la macchina due volte e costrinse le gazze a volar via.


Scivolare è prospettiva dietro l’angolo del quotidiano. Perché uno riesca a stare in piedi o cada è un mistero. C’è un di più in questa storia: una sorta di terza via, ovvero restare illesi nonostante la caduta. E seppure a un certo momento possa apparire buia, resta una carta da giocare. Dell Parsons ci dice che la formazione, la Bildung, può perfino procedere e completarsi nonostante esperienze per nulla edificanti: è qui la statura letteraria del personaggio che metabolizza fatti molto brutti non per qualunquismo ma per forza intrinseca. Come ci riesce? Perché il loro «preludio… può essere ridicolo, ma può anche essere casuale e insignificante». Se il punto da cui partono eventi disastrosi è tale, la cosa «merita di essere riconosciuta», primo perché si coglie la misura giusta delle cose anche quando la sopportazione è al colmo; secondo perché il disastro viene ricodificato secondo la categoria non del banale, ma dell’incidente plausibile. È andata così, ho visto per l’ultima volta i miei genitori dietro delle sbarre di un carcere, sono scampato per un pelo all’orfanotrofio, ho sofferto freddo e fame e ho scavato fosse profonde perché i coyote non potessero arrivare alle carogne umane, ma ho capito che fin dal principio tutto quanto non era tanto scritto quanto «a un pelo dalla vita di tutti i giorni».

Marco Caneschi - Laura Ingallinella