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CriticaLibera: L'amore del vero nelle novelle di Giovanni Verga

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Una fotografia scattata da Giovanni Verga (1892)

Chi se non Verga? Chi se non lui poteva fotografare davvero la Sicilia dell'Unità d'Italia? D'altronde la fotografia era una delle sue passioni, perché gli permetteva di mostrare le cose esattamente per com'erano. E questo gli interessava, raccontare le cose per com'erano andate, anzi, per come dovevano andare. Una fatale necessità domina le sue novelle e le opere che si iscrivono nel verismo. Vi siete mai chiesti perché Verga occupi una buona fetta del programma di letteratura italiana? Io sì, perché essendo siciliana pensavo che fosse normale che i miei insegnanti gli dessero molto spazio. Solo più tardi ho capito veramente il perché.
Verga ha vissuto in pieno lo sbarco dei Garibaldini, l'Unità d'Italia; di più, ne era così entusiasta che si arruolò nella Guardia Nazionale. Era uno che aveva fiducia nel futuro, nel cambiamento. Ma dopo aver visto cosa c'era fuori dalla Sicilia, dopo aver visto che l'Unità non sarebbe bastata a far cambiare la realtà siciliana, perse completamente sia la fiducia che l'entusiasmo. Banalmente, nel romanzo I Malavoglia, la famiglia protagonista vede il giovane 'Ntoni partire per la leva divenuta obbligatoria dopo l'Unità: le braccia più forti della famiglia vengono meno, destabilizzandone l'equilibrio economico non proprio florido. Così comincia il circolo vizioso che li porterà alla rovina: il vecchio 'Ntoni si indebita per tentare una nuova attività, il giovane 'Ntoni non potrà più tornare ad Acitrezza perché non ci si ritrova più. La Provvidenza, che non è più quella benevola dei Promessi Sposi, ma una barca che soccombe alle intemperie del mare, precipita portando con sé tutto quello su cui la famiglia può contare. La natura in Sicilia è violenta, non ha pietà: ne parlerà in questi termini anche Tomasi di Lampedusa, nella descrizione del giardino di casa Salina, dove i fiori risentono del sole troppo forte, che fa degenerare i loro petali e i loro profumi; il sole che picchia sulla testa dei siciliani, e loro volontà di cambiare si rintuzza da qualche parte, tra la pigrizia e la necessità di sopravvivere. Il progresso, il cambiamento, qui si dissolvono al sole, anzi peggio, incidono negativamente su quella realtà sempre uguale. Allora Verga, appassionato della verità, dello studio delle passioni umane, si chiede, retoricamente:
La scienza del cuore umano, che sarà frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le risorse dell'immaginazione che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
È intimamente convinto che rispettando determinati canoni, il romanzo sarà realmente lo specchio esatto delle passioni umane. Quali siano questi canoni, non manca di riferirli in maniera essenziale e completa nella novella L'amante di Gramigna, una sorta di piccolo manifesto del verismo: raccontare “press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare", perché
Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo nei loro andirivieni che spesso sembrano contraddittorî, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che dicesi l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico.
Il verismo sacrifica
volentieri l'effetto della catastrofe, del risultato psicologico, intravvisto con intuizione quasi divina dai grandi artisti del passato, allo sviluppo logico, necessario di esso, ridotto meno imprevisto, meno drammatico, ma non meno fatale; siamo più modesti, se non più umili; ma le conquiste che facciamo delle verità psicologiche non saranno un fatto meno utile all'arte dell'avvenire.
Raccontare i fatti per come sono andati o per come era necessario che andassero: nelle opere veriste di Verga sussiste una fatalità necessaria per cui nessun personaggio, nessun accidente può cambiare il corso delle cose; l'interesse per la conoscenza delle passioni umane, su cui Freud avrebbe riflettuto di lì a poco, li rende vicini. Scrive Pietro Citati:
In questi momenti di inquietudine, Freud ricordava con dolorosa nostalgia e un nascosto rancore il destino di Sofocle, di Cervantes, di Shakespeare, di Goethe o di Dostoevskij. Anch'essi avevano sacrificato qualcosa, perché senza rinunce non si scrivono libri, né si dipingono quadri; ma avevano sacrificato molto meno di lui, se nei loro libri scorreva così ricca, geniale e mai impedita la strana corrente dell'amore vitale. Tutte le verità sul cuore umano, sui sogni, la sessualità, l'infanzia e l'inconscio, alle quali era giunto “avanzando senza posa a tentoni in mezze a torturanti incertezze”: tutte le verità, che egli aveva conquistato con una tenacia inflessibile, i grandi artisti del passato e del presente le coglievano senza fatica, con una facilità che lo riempiva di invidia, quasi possedessero la conoscenza intuitiva dei misteri del mondo. Gli déi li avevano colmati generosamente con le grazie più rare, e avevano condannato lui a guadagnare il “suo” pane col “sudore della fronte”.
Lo scrittore, profondo conoscitore del “gran libro del cuore”, come scrive Verga, e il padre della psicoanalisi che guarda alle cime della letteratura mondiale come uomini che sanno guardare in fondo all'anima, apparentemente senza alcuna fatica. Verga vuole sacrificare lo stile al verosimile, sacrifica gli orpelli stilistici, l'effetto psicologico alla narrazione scarna del reale, che arriva al lettore senza filtri, senza neanche permettergli di immedesimarsi con gli “eroi” dei racconti. In questo modo Verga è riuscito davvero e fino in fondo a restituirci un'immagine viva e concreta della realtà siciliana dopo l'Unità d'Italia. Molto più che con le sue foto.
”E vivi della sola minestra?”
“Sì, ci sono avvezza,” rispose Nedda semplicemente.
(Nedda)
Insomma l'ideale dell'ostrica! direte voi. 
Proprio l'ideale dell'ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d'ora – cose serissime e rispettabilissime anch'esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. (...)
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora si leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedete che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
(Fantasticheria, da Vita dei campi)
Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura di andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà.
(...)
Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
(Rosso Malpelo, da Vita dei campi)
Una volta la Lupa si innamorò di un bel ragazzo che era tornato da soldato, ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura.
(La Lupa, da Vita dei campi)
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “roba mia, vienitene con me!”
(La roba, da Novelle rusticane)
Ma non è solo questo: Giovanni Verga occupa un posto tanto importante nella storia della letteratura italiana anche per le sue fondamentali innovazioni linguistiche. La lingua delle sue novelle e, soprattutto, dei suoi romanzi, così ricca di calchi di espressioni e proverbi tipicamente siciliani, ma anche di spie lessicali come sicché, uscio, che tradiscono i periodi trascorsi a Firenze e Milano, propone un esempio di prosa viva, vicina a un italiano moderno e colloquiale, con alcune soluzioni (il discorso indiretto libero, il ricorso allo stile nominale...) che rivoluzioneranno completamente il romanzo italiano: a cominciare da Luigi Pirandello e Italo Svevo.

Lorena Bruno