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Caitlin Moran: viaggio nell'irriverente mondo di una femminista "a sua insaputa"

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Ci vogliono le palle per essere una donna
di Caitlin Moran
Sperling & Kupfer, 2012

€ 17


Caitlin Moran è una forza della natura: eccentrica, sboccata, fumatrice incallita, ma soprattutto intelligente, precoce talento e moderna femminista. Nata nel 1975 nella profonda periferia inglese in una famiglia numerosa e costantemente in lotta con i problemi economici, a sedici anni debutta come giornalista musicale per la rivista Melody Maker, in un’ascesa inarrestabile che l’ha portata appena diciassettenne a scrivere per il Times e di lì a pochi anni ad aggiudicarsi premi di prestigio, finendo per diventare una delle più influenti giornaliste di costume e musica del panorama inglese contemporaneo. 
Ciò che da sempre la contraddistingue – oltre all’inconfondibile ciocca bianca nel mezzo della lunga chioma nera- è quel linguaggio diretto, un po’ volgare certo, fatto di parole urlate e punti esclamativi e il tono dissacrante con cui interpreta il mondo, scagliandosi contro gli stereotipi e le rigidità del vecchio femminismo accademico. Tratti che si ritrovano nell’ultimo bestseller internazionale “How to be a woman” – tradotto orribilmente in italiano con il titolo “Ci vogliono le palle per essere una donna” – sorta di autobiografia del percorso in direzione di una visione femminista della realtà. 
Si badi bene, la Moran è senza dubbio una femminista fuori dagli schemi, allergica ad ogni stereotipo entro cui la si voglia rinchiudere e legata alla tradizionale idea che chiunque ha del movimento di emancipazione delle donne probabilmente solo dalle letture giovanili che l’hanno profondamente segnata guidandola verso la presa di coscienza di sé, tra cui il più volte citato “L’eunuco femmina” di Germaine Greer. Accanto alle convinzioni e alle ideologie sulla necessità per la donna di liberarsi da schemi retrogradi e strutture maschiliste, la Moran infatti affianca via via una visione tutta personale del cambiamento necessario, che oltre alle importantissime battaglie per la parità dei sessi, il riconoscimento del valore femminile nel mondo del lavoro, contro le discriminazioni e le violenze fisiche e psicologiche, la scrittrice riporta all’attenzione tutti quei piccoli, apparentemente insignificanti meccanismi quotidiani che costringono la donna contemporanea in una posizione subalterna rispetto a quella maschile. E lo fa ricorrendo anche in questo caso alla sua arma più congeniale, quell’ironia irresistibile che caratterizza i suoi scritti, capace di rendere un saggio serissimo nelle intenzioni un lavoro spassoso ma mai banale che si legge tutto d’un fiato, ridendo a crepapelle eppure riflettendo su tutti quei meccanismi distorti in cui la donna si ritrova molto spesso intrappolata. Dall’ossessione per un modello omologato e irraggiungibile di bellezza femminile contro cui la stessa autrice si scontra fin da ragazzina, passando per l’accusa all’industria della pornografia, attenzione, non alla pornografia in quanto tale bensì alla struttura entro cui è rinchiusa, monotona e colpevole di formare un’idea spesso irreale della sessualità e del corpo. Allo stesso modo la Moran si scaglia contro tutti i comportamenti offensivi spesso accuratamente celati eppure assai frequenti che lei individua come pura e semplice maleducazione non verso una categoria distinta di persone nell’eterna lotta donne vs uomini, ma nei confronti di un membro della stessa razza umana, della Banda, oggetto di discriminazione non necessariamente sessuale. Le pagine più intense – e che certamente non mancheranno di suscitare qualche ovvia discussione- sono quelle che nel saggio la scrittrice inglese dedica alla maternità: una scelta personale che dovrebbe essere libera da ogni influenza esterna proveniente cioè da famiglia, società e stereotipo ma che purtroppo in molti casi ancora oggi appare profondamente legata a questi fattori, alla convinzione che nessuna donna possa scegliere autonomamente e in tutta sincerità di non avere figli. Essere single e non desiderare di diventare madre sono due condizioni che la società (non necessariamente solo gli uomini) non concepisce come scelta consapevole, bensì come difetto, mancanza di sincerità e quindi ipocrisia. Pur essendo madre, la Moran difende quindi il diritto per ogni donna di vivere liberamente le proprie decisioni anche quando la società ci vorrebbe tutte mogli e madri, quasi in un colpo di coda della morale borghese anni cinquanta. E inevitabilmente finisce con il parlare di aborto, un tema ancora tabù, rivendicando anche in questo caso il diritto di ogni donna di compiere la propria scelta sofferta o meno ma sempre in autonomia, una decisione che lei stessa ha preso senza rimpianti, ma che molto spesso viene concepita solo entro casi precisi, situazioni dolorose, incidenti di percorso in cui si è incorsi troppo giovani, ma che nasconde invece le più disparate situazioni e motivi.

L’ultimo lavoro di Caitlin Moran è quindi senza dubbio una riflessione interessante su cosa vuol dire davvero oggi essere una donna, quale percorso tortuoso ci porta dai giochi infantili all’età adulta con le sue regole e tabù. Uno sguardo che dietro l’ironia è sempre lucido ed appassionato e che non manca di sottolineare il debito enorme con la tradizione femminista che l’ha preceduta, ma che proprio per la sua forma si discosta nettamente da modelli anteriori e che tuttavia non deve far sorgere fraintendimenti circa la serietà delle intenzioni. Al contrario invece tenta di abbattere anche questo stereotipo che vuole la femminista dura e pura, incapace di guardare alla realtà e a se stesse con umorismo. Una capacità che senza dubbio Caitlin Moran possiede.