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La badante di Bucarest: un'opera prima davvero meritevole

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La badante di Bucarest
di Gianni Caria
Robin Edizioni, Roma 2012

€ 12
pp. 151

Raramente accade di restare colpiti da un’opera prima. Ma che dico?, più che colpiti malmenati, presi a pugni vicino alla bocca dello stomaco, dove si fermano quei tracolli di emozioni che cerchiamo di ricacciare. Per paura di ammettere che una scrittura è riuscita ad abbattere qualsiasi resistenza critica, a trasformare il ductus stilistico in un messaggio che ci raggiunge con la violenza della verità. E così è questa prima prova di Gianni Caria, noto ai più come magistrato e Sostituto Procuratore a Sassari. Ma la storia che è qui raccontata non c’entra nulla con la professione di Caria, né risente di burocratese giurisprudenziale lo stile così fantasticamente curato e ponderato (quante scelte stilistiche di buongusto, tra lirica e realismo!).

Ma passiamo alla trama. Contrariamente a quanto si possa pensare, la badante di Bucarest non è una donna rumena, ma una quarantenne italiana, Maria, che, in una situazione economica critica, lascia il marito Enzo e i due figli per offrire il suo lavoro di badante in Romania. E poco importa a questi nuovi ricchi che la donna sia stata un’insegnante di italiano, come poco importa della sua alimentazione o dei suoi sentimenti, filtrati da una razionalità acuta e da una fantasia trasparente. Così Maria si trova a casa di un vecchio professore, luminare ormai afasico e apatico, abbandonato nel letto per una malattia spietata che lo svilisce fisicamente e intellettivamente. È questo stato simil-vegetativo a generare in Maria riflessioni tra il nostalgico e il cinico - ma si tratta sempre di un cinismo doloroso, mai caustico, che si ripiega quasi teneramente sulla realtà dei fatti, senza incrudelirla ulteriormente. 
Accanto al difficile compito di vegliare il professore, la solitudine:
Maria è una donna abbattuta, ridotta alla sua funzione di badante, appesantita nel fisico e soprattutto la sua vitalità è ormai addormentata, limitata ai ritmi di mera sopravvivenza. In più, lo strappo dall’Italia innesca una messa in discussione dei suoi rapporti prima dati per scontati. Il marito Enzo viene ripensato sulla scorta degli ultimi eventi, del tracollo finanziario, del suo desiderio di deresponsabilizzarsi; i figli sono ritenuti degli ingrati, egoisti, interessati principalmente agli introiti della madre. Ma qual è veramente la situazione? Caria non si accontenta di dar voce a Maria (e con quanta sensibilità si cala nella mentalità femminile!), ma intervalla qui e là la cascata di pensieri, immaginazioni e azioni della protagonista con spaccati narrativi che, in terza persona, presentano la situazione romana di Enzo e dei ragazzi.

Opera strutturalmente calibratissima, tra flashback, pensieri monologanti, stringhe di riflessione e dialoghi essenziali, densa e angosciante per la carica d’umanità, affronta dall’interno anche il problema del rapporto italiani-rumeni, ribaltando le prospettive a cui siamo abituati: è un’italiana a varcare il confine rumeno, ad affrontare il problema della lingua e di una cultura straniera. Accanto alla solitudine, infatti, il tema dell’esclusione è continuamente presente, nelle sfaccettature più varie: esclusione dalla vita (il professore), dagli affetti (Maria, il marito e i ragazzi), dalla comunità straniera (né la famiglia del professore né gli altri sembrano interessati ad aiutare Maria nell’integrazione, a cominciare dal divario linguistico). Sfociando nel dramma psicologico ed esistenziale, il romanzo di Caria si inserisce nel numero esiguo di quei libri che vorremmo far conoscere e regalare a chi amiamo. Per aprire le proprie visuali, per emozionarsi, per rabbrividire e, a libro terminato, per riflettere ancora. 
Gloria M. Ghioni