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Pillole d'autore: Sylvia Plath

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Una pièce di successo s'intitola ironicamente: Chi ha paura di Virginia Woolf?, giocando sull'omofonia tra il cognome dell'autrice inglese e il bad wolf delle favole. Ma se proprio volessimo trovare un vero "lupo cattivo" sfogliando il catalogo della letteratura al femminile del secolo ventesimo, il podio sarebbe subito sottratto all'onirica disegnatrice di ore e onde per essere consegnato altrove, oltremanica e oltreoceano. A chi? Alla bella, nevrotica poetessa che amava definirsi "una Barbie con cervello" (a Barbie Doll with brains): Sylvia Plath. Ma forse l'appellativo sarebbe sembrato troppo morbido a lei, che s'identificò con la terribile Lady Lazarus, nostra Signora dei Suicidi che sempre ritorna dal regno dei morti, risorgendo dalle ceneri con la sua chioma rossa e mangiando uomini "come aria di vento".
La sua poesia ha un che di rivoluzionario e temibile, in quanto mobilita le forze oscure della psiche femminile: di una donna americana degli anni '50, sposata a un poeta di successo e privata della sua autonomia artistica ed economica. Queste forze invadono il verso e lo trasformano completamente. La poesia di Sylvia Plath è un ruggito rabbioso che fa dell'immagine icastica e dell'enjambement i suoi cavalli di battaglia. Tradotta in italiano da Giovanni Giudici, la sua opera è disponibile in selezione per Oscar Mondadori (1998), omnia per i Meridiani (2002).


Lady Lazarus

L'ho rifatto
Un anno ogni dieci
Ci riesco

Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Il mio Piede destro,

Un fermacarte
La mia faccia un anonimo, pefetto
Lino ebraico.

Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?

Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.

Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me

E io sarò una donna che sorride.
No ho che trent'anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.

Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.

Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante nocioline
Si accalca per vedere

Che mi sbendano mano e piede
Il grande sporgliarello.
Signori e signore, ecco qui

Queste sono le mie mani,
I miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta sucesse che avevo dieci anni.
Fu un incidente.

Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa

Come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.

Morire
È un'arte, come ogni altra cosa.Io lo faccio in un modo eccezionale.

Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.

È facile abbastanza da farlo in una cella.
È facile abbastanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale

Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale animale
Urlo divertito:

"Miracolo!"
È questo che mi ammazza.
C'è un prezzo da pagare

Per spiare le mie cicatrici,c'e' un prezzo da pagare
per auscultare il mio cuore
Eh sì, batte.

E c'è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po' del mio sangue

O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr nemico.

Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creature d'oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.

Cenere, cenere
Voi atizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate

Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.

Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.

Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento.


Febbre a quarantuno

Pura? Cosa vuol dire?
Le lingue dell'inferno
Sono ottuse, ottuse come la tripla

Lingua dell'ottuso, grasso Cerbero
Che anela sulla porta. (...)

Per te o chiunque sono troppo pura.
Il tuo corpo
Mi offende come il mondo offende Dio. Io

Sono lanterna – la mia testa una luna
Giapponese di carta, la mia pelle oro in foglia
È carissima, molto delicata.

Non ti sbalordisce il mio calore? E la mia luce?
Sono un’immensa camelia
Che s’infuoca e va e viene, vampa a vampa. (…)

Specchio

Sono esatto e d'argento, privo di preconcetti.
Qualunque cosa io veda subito l'inghiottisco
Tale e quale senza ombre di amore o disgusto.
Io non sono crudele, ma soltanto veritiero -
Quadrangolare occhio di un piccolo iddio.
Il più del tempo rifletto sulla parete di fronte.
E' rosa, macchiettata. Ormai da tanto tempo la guardo che la sento
Un pezzo del mio cuore. Ma lei c'è e non c'è.
Visi e oscurità continuamente si separano.

Adesso io sono un lago. Su me si china una donna
Cercando in me di scoprire quella che lei è realmente.
Poi a quelle bugiarde si volta: alle candele o alla luna.
Io vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Me ne ripaga con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Anche lei viene e va.
Ogni mattina il suo viso si alterna all'oscurità.
In me lei ha annegato una ragazza, da me gli sorge incontro
Giorno dopo giorno una vecchia, pesce mostruoso.

Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
Succhiante minerali e amore materno
Così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti gridi di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
E la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resterò sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

Orlo

La donna è a perfezione.
Il suo morto

Corpo ha il sorriso del compimento,
Un'illusione di greca necessità

Scorre lungo i drappeggi della sua toga
I suoi nudi

Piedi sembran dire:
Abbiamo tanto camminato, è finita.

Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
Come un bianco serpente a una delle due piccole

Tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti

Dentro il suo corpo come petali
Di una rosa richiusa quando il giardino

S'intorpidisce e sanguinano odori
Dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

Niente di cui rattristarsi ha la luna
Che guarda dal suo cappuccio d'osso.

A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

Papaveri in luglio 

Piccoli papaveri, piccole fiamme d'inferno,
Non fate male?

Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.

E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.

Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!

Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?

Ah se potessi insanguinare o dormire!
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferita così!

O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza,

senza colore.