Il breve ma densissimo saggio che Furio Jesi dedica a Bertolt Brecht, pubblicato nel 1973 per la storica collana “Il Castoro” e riproposto oggi da Nottetempo, è uno dei testi più illuminanti dell’intera bibliografia jesiana. Non perché esaurisca l’opera del drammaturgo tedesco, sarebbe impossibile, ma perché ne intercetta il cuore vivo: la dialettica irrisolta tra rivoluzione e forma, tra ideologia e mestiere, tra arte e critica dell’arte.
Jesi non legge Brecht come un semplice autore teatrale: lo legge come dispositivo, come macchina mitologica vivente. Il suo Brecht è una figura che porta nel proprio corpo scenico la tensione tra la promessa di redenzione e la consapevolezza della sconfitta, tra il gesto performativo e il lavoro, implacabile, della storia. Il Brecht che non ha bisogno di pubblico.
Una delle citazioni più sorprendenti del volume appare già nelle prime pagine, quando Jesi commenta le note brechtiane sui drammi didattici:
«Questo termine [didattici] vale solo per quei drammi che hanno efficacia di insegnamento per i loro interpreti. Essi quindi non hanno bisogno di pubblico». (p. 83)
Jesi coglie perfettamente l’ambiguità e la radicalità di questa affermazione. Se l’attore è al centro del processo pedagogico, lo spettatore, figura centrale nel teatro borghese, può essere momentaneamente espulso. Il teatro diventa così un laboratorio di autocoscienza, un luogo in cui il performer cambia sé stesso prima ancora di cambiare il mondo.
Questa frase apre una delle intuizioni più potenti del libro: per Brecht, l’atto teatrale non è rappresentazione, ma trasformazione.
Jesi mette a fuoco questa qualità con esattezza filologica e chiarezza concettuale. La nascita del teatro come ripetizione rituale
Il saggio prosegue ampliando la lettura del “teatro epico” e ricostruendo, in appendice, la celebre lezione jesiana: "Origini del teatro", qui ripubblicata. Jesi collega Brecht alle rappresentazioni arcaiche, ai riti collettivi, ai miti che “salvano dai dolori della storia”, secondo una linea di pensiero che ha molto in comune con la sua teoria della macchina mitologica.
La ripetizione scenica, la rotazione dei ruoli, la possibilità che gli attori si scambino le parti:
«È prevista una rotazione, per cui ciascun attore possa in successive rappresentazioni figurare il giovane compagno, il coolie, il sorvegliante…». (p. 83)
viene letta come un ritorno a una teatralità non individualistica, non psicologistica, non borghese.
Jesi vede qui un Brecht che smonta l’illusione romantica dell’attore-genio e restituisce alla scena la natura collettiva dell’atto politico.
Uno dei capitoli più acuti è dedicato al primo Brecht, quello di Baal:
«Baal vive concluse nel proprio presente; per Baal non esiste futuro, neppure sotto forma di un “immediato, immediatissimo domani”». (p. 31)
Jesi coglie l’oscillazione tra vitalismo e autodistruzione, tra poesia maledetta e negazione del mito del poeta maudit. Brecht, per Jesi, non “precede” nulla: distrugge, consuma, smonta, proprio perché rifiuta la posizione del precursore.
Questa lettura rompe la linearità interpretativa con cui spesso si affronta Brecht, e mostra come la sua poetica si radichi nel gesto, nel presente, nell’improvvisazione, non nel destino, né nel progresso.
Uno dei passaggi più importanti del libro riguarda la tensione tra artista e società. Jesi cita una nota centrale dell’opera brechtiana:
«La posizione dell’intellettuale che “si impegna nella lotta di classe solo nella misura in cui può verificare la possibilità del contributo del suo mestiere”».
È qui che Jesi trova la vera faglia critica.
Brecht è un intellettuale che opera dal margine, che non può fondersi completamente con il proletariato, ma che non può neppure abbandonarlo. Da una parte la cultura borghese da cui proviene, dall’altra la coscienza critica del proletariato:
«l’accordo delle eredità borghesi del drammaturgo […] e, dall’altra parte, l’accordo dello straniamento critico operato dagli attori con la coscienza critica del proletariato». (p. 143)
Jesi individua qui una frattura identitaria che non si ricompone mai.
Brecht è diviso, e proprio questa divisione rende la sua opera politicamente viva. Non c’è un Brecht puro, un Brecht “di sinistra” lineare, un Brecht ideologicamente coerente: c’è un Brecht che lotta con sé stesso, con la storia, con il teatro.
Il saggio si chiude con un passaggio storico affascinante. A soli diciannove anni, Jesi mette in scena Tamburi nella notte in una cantina torinese. La scena è descritta con dettagli quasi romanzeschi:
«Una vera e propria cantina, senza luce elettrica, senza riscaldamento, con polvere, tramezzi e umidità». (p. 9)
È un teatro povero, improvvisato, ma profondamente brechtiano: un luogo dove il pubblico affronta gelo e scomodità per assistere a qualcosa che non simula la realtà, ma la espone, la frantuma, la consegna come materia viva.
La produzione jesiana è attraversata da questo stesso rigore: l’analisi come disciplina, la scena come atto critico, la narrazione come smontaggio del mito.
Il Brecht che Jesi racconta è dunque il Brecht che gli somiglia: un autore che mette continuamente in discussione il proprio ruolo, che si autocritica, che sfida il potere e le forme del potere, anche quando sono le forme dell’arte. Bertolt Brecht di Furio Jesi è un saggio breve ma incandescente.
È una lettura che non introduce semplicemente Brecht: lo problemizza, lo mette a fuoco nella sua natura più complessa, più contraddittoria, più feconda.
È un testo per chi ama il teatro, per chi ama la teoria critica, per chi vuole capire come un autore possa attraversare i decenni continuando a porre domande scomode.
E per chi, come Jesi, sa che il mito non va mai celebrato: va smontato, osservato e rimesso in moto.
Alessia Alfonsi
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