Volevamo solo vedere il mare
Fabio Bartolomei
Mondadori, 2025
pp. 192
€ 17, 00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Volevamo solo vedere il mare costituisce l’esordio di Fabio Bartolomei nel mondo della narrativa per ragazzi. Il contesto in cui sceglie di ambientare la sua storia è quello della seconda guerra mondiale, e nuovamente - come ne L’ultima volta che siamo stati bambini - protagonisti sono tre giovanissimi, alle prese con la violenza, l’ideologia, le logiche stranianti del loro tempo. La scelta dell’autore è quella di dar voce però a tre ragazzi tedeschi, che marciano verso il fronte all’interno della 12a SS Panzer Division Hitlerjugend. Bartolomei è abile nel mostrare, fin dalle prime pagine, il clima di esaltazione dei soldati sedicenni, freschi di arruolamento e infarciti di retorica, convinti che si distingueranno nel più grande degli eserciti, e nella più importante delle battaglie.
Solo che ci troviamo in Normandia, nell’estate del 1944, gli Alleati sono appena sbarcati e si prospetta un bagno di sangue. Quelli che marciano verso la prima linea sono solo ragazzini, che giocano a fare la guerra e hanno un sistema a punti e bonus per le imprese eroiche di cui saranno artefici, per i nemici che ammazzeranno. La morte è qualcosa che non li riguarda. Solo il giovane Adolf la riconosce, per averla vista negli occhi della madre al termine della malattia. Dovranno però apprenderla, e presto, sulle terre normanne. A questo si oppone un veterano ferito, che ricordandosi dei suoi tre bambini decide di salvarne altri tre, dal campo di battaglia. Su un carro armato danneggiato durante un bombardamento, trasporta Adolf, il suo amico Lothar e Valentin, l’addetto alle comunicazioni radio, verso un luogo sicuro, una spiaggia ancora intatta, incontaminata dalla guerra, e prima di morire li affida a Georgette, una vedova francese che li accoglie - pur senza comprenderne pienamente il motivo. Anche i ragazzi non capiscono cosa stia succedendo (“Herr Voss, […] cosa dobbiamo fare?” “Aspettare.” “Sì, ma aspettare cosa?” “La fine della guerra.”, p. 30): il loro posto è il fronte, il piano chiaro da sempre (“vai, ammazzane tanti, prendi una medaglia e torna a casa a festeggiare la vittoria”, p. 38).
Stare lì, lontani da tutto, pare un sacrilegio. Eppure… eppure lì c’è il mare, che nessuno dei tre ha mai visto prima, e c’è tanto lavoro da fare, prima di potersi riunire alle truppe. Nel frattempo, Georgette osserva i tre giovani, ineducati dal nazismo, che agiscono come fossero i padroni e tutto gli fosse dovuto, e cerca di ritrovare le motivazioni per cui un ufficiale avrebbe dovuto dare la vita per loro. Il punto di vista degli adulti è diverso da quello dei ragazzi, che resta ingenuo, privo del quadro generale, accecato da un fanatismo che è complesso da estirpare. Dei tre, Adolf - che ricomincerà a farsi chiamare Florian, secondo nome voluto dalla madre - è il più permeabile alla possibilità di una nuova vita. Valentin invece, ma soprattutto Lothar, continuano a elaborare complicati progetti per tornare alla guerra. E tutti e tre reagiscono come i cani di Pavlov agli stimoli nazionalisti (e così, per esempio, un temporale può diventare una battaglia navale in cui la Germania certamente si sta distinguendo…).
Disinnescare la reazione istintiva dovuta a anni di educazione distorta è un’operazione complessa: persino Florian è “pronto a seguire i suoi amici, per un semplice motivo: nessuno, nemmeno suo padre, gli ha mai insegnato a considerare la propria vita così importante da poter dire di no quando la patria chiama” (p. 89). Ciò che può fare la differenza è allora la permeabilità dell’animo agli stimoli esterni, lo spazio che si sceglie di dare all’altro, per entrare e farsi largo in una coscienza arrugginita. Flo, “appiccicoso”, e disperatamente in cerca di una figura materna, meno biondo e un poco meno nazista degli altri, permette alla nuova quotidianità di farsi strada dentro di lui, vede e riconosce il lutto di Georgette, si invaghisce della bella Marie e decide di darsi l’occasione di una vita altra, che inizia a intuire e desiderare. Una vita in cui poter essere solo un figlio, un amico, un ragazzo.
Progressivamente, nell’avanzare della storia, tra un’avventura e l’altra in cui i giovani, inetti al mondo, si trovano coinvolti, si configura una nuova idea, opposta a quella del nazismo in cui il leader muove le vite dei singoli come quelle di marionette uniformate a un modello imposto dall’esterno. Florian si rende conto invece, come in una rivelazione, che “è partito per combattere il nemico e ha incontrato prima un uomo e poi una donna che senza un perché hanno voluto salvargli la vita, come in una famiglia, una strana famiglia di padri, madri e figli estranei tra loro, senza legami di sangue, se non quello versato in guerra” (p. 133). È possibile allora un modello diverso di crescita e accudimento, quello in cui gli adulti si occupano della vita dei giovani perché essa ha valore di per sé, senza orientarla verso un fine come un cannone, o una mitragliatrice. E al tempo stesso, però, si fa strada l’idea che, anche se non ci si deve arrendere di fronte alle altrui resistenze, si può salvare solo chi vuole essere salvato.
Così come i precedenti romanzi di Bartolomei per adulti potevano far pensare il lettore giovane, così questo rivolto ai giovani (soprattutto della fine del primo ciclo d’istruzione o del biennio superiore) lancia segnali anche agli adulti, specie agli educatori. Personaggi come quello di Her Voss, o di Georgette, risultano i più commoventi e convincenti perché si aprono alle sfumature e al compromesso in un mondo che vorrebbe sezionare, dividere in parti nette e contrapposte. Ispirato a un evento storico reale, quello della formazione di una armata composta solo da giovanissimi soldati della Gioventù hitleriana, il racconto di Bartolomei riesce a far ragionare con delicatezza e ironia, senza mai assumere toni didascalici o moralistici. E la piccola spiaggia non lambita dalla guerra diventa allora metafora luminosa di un futuro possibile, a cui ambire a ogni costo.
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