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«Miracolo, ma anche tremendo equivoco»: i Mille “da Quarto a Torino” nella prima opera risorgimentale di Bianciardi

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Da Quarto a Torino
di Luciano Bianciardi
Prefazione di Errico Buonanno
minimum fax, 2023

pp. 240
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 

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Se Garibaldi (recensito qui) era l’ultimo dei libri a tema risorgimentale di Bianciardi, Da Quarto a Torino, frutto di una mai sopita passione giovanile, è il primo. L’opera, nata su commissione dell’editore Feltrinelli, con cui l’autore aveva collaborato, per celebrare il centenario della spedizione dei Mille, si alimenta di uno slancio risorgimentale purissimo, che porta a nominare personaggi ed eventi dando per scontato che chi legge li conosca alla perfezione. E così, sicuramente, era allora. Oggi non si sa. Certo però solo chi ha già un’infarinatura relativa agli eventi e ai processi che hanno condotto all’Unità d’Italia può apprezzare appieno l’ironia sferzante di cui Bianciardi dissemina le sue pagine, le pennellate rapide con cui inquadra, a volte esplicitamente bacchetta, i comprimari, come Cavour, sempre ostile agli impeti irregolari, e pertanto potenzialmente pericolosi, di Garibaldi: 

Cavour naturalmente sapeva tutte queste cose, e più di ogni altro era contrario alla spedizione, e a ragione. L’orizzonte politico e psicologico di Cavour non arrivava oltre Firenze […]. L’unità d’Italia era una “grossa corbelleria” e odorava di mazzinianesimo. Le foglie esterne del carciofo italiano potevano anche attendere. (p. 36)

Lo stesso Garibaldi, del resto, non è inizialmente sicurissimo della spedizione in Sicilia. Lo trattengono le notizie confuse che arrivano dal Meridione, una certa titubanza relativa alle priorità da assecondare nel processo unitario, le difficoltà a procurarsi il necessario per partire.

Molto più che in Garibaldi, qui Bianciardi si abbandona al gusto del racconto, dei dettagli, a volte anche piccantini, che hanno ben poco valore a livello di ricostruzione storica, ma solleticano la fantasia (come la tappa a Talamone dove il Generale, tra un’ambasceria e l’altra, pranza con minestra di cavoli, lesso con fagioli e frittata di cipolle). Per lui il Risorgimento italiano è una storia di famiglia, e come tale la riferisce.

Forse talvolta, nell’inseguimento di idee collaterali, nella ricostruzione delle identità di personaggi secondari, nel seguire le vicissitudini dei Mille, prima e dopo la spedizione, la narrazione si disperde in rivoli, perde in compattezza. Pare che Bianciardi, in balia del suo entusiasmo da appassionato, non abbia ancora trovato l’equilibrio delle opere successive. La penna, come la lingua, è pungente e lancia strali ferocissimi, alcuni rivolti al passato, come al povero Franceschiello, preso in una situazione più grande di lui («Francesco II era giovane davvero, ventitré anni, ed era sovrano da meno di un anno. […] Già gracile, timido, poco provveduto da madre natura, la scuola dei religiosi lo aveva completato: era più o meno un imbecille», p. 77), altri al presente, contro le semplificazioni di una «storiografia oleografica», che vede il Risorgimento come «una filza di Padri della Patria che marciano al passo verso una donna popputa e aureolata, la nostra amata Italia» (p. 38).

La cronaca dell’avanzata dei Mille verso Palermo è minuziosa, e mette in evidenza da un lato la difficoltà dei volontari, male armati e impreparati al terreno di marcia e di combattimento, spesso aspro e disagevole, dall’altra la competenza tecnica di Garibaldi, che bada di evitare scontri frontali con un nemico nettamente superiore di numero, a costo di dover continuamente aggiustare e correggere i propri piani. Il controllo solido del Generale sui suoi e l’aura di leggenda che circonda l’avanzata finiscono per avere la meglio su tutti i pronostici. Non mancano certo episodi incresciosi, o imbarazzanti, scivoloni nati dall’imperizia dei picciotti siciliani aggiunti alle schiere garibaldine, o degli stessi Mille, in larga parte intellettuali, artisti, professionisti inesperti di combattimento («quello dei Cacciatori delle Alpi fu uno degli eserciti più colti che la storia ricordi», p. 57). A volte lo scenario si fa tragicomico, a riscattarlo solo la dignità dell’ideale che muove la spedizione.

Proprio questo, il forte senso etico che anima, se non tutti quantomeno il Generale, è ciò che permette la contrapposizione, a livello narrativo, tra l’idealismo a tratti ingenuo di quest’ultimo e le macchinazioni, i calcoli, le astuzie trasformistiche di Cavour. È l’insieme di questi elementi a decretare la sconfitta politica del primo e il trionfo del secondo, ma non c’è dubbio di quale direzione prenda la stima di Bianciardi:

Fra gli altri torti di Cavour c’è anche quello di non aver voluto mai credere nella sincerità di Garibaldi e nella sua scrupolosa fedeltà alla divisa che aveva scelto per sé e per i Mille: Italia e Vittorio Emanuele. Gli intrighi della politica e le finzioni della diplomazia erano in Cavour un abito mentale, ed egli non poteva quindi credere che Garibaldi fosse un uomo rettilineo, davvero convinto di quel che andava ripetendo: liberiamo l’Italia tutta, e allora faremo l’unità, con Vittorio Emanuele re. L’unità di Palermo con Napoli e Roma e Venezia. Garibaldi lo diceva e lo pensava, Cavour si ostinava a sospettarlo di mire dittatoriali e repubblicane. (p. 131)

E poco conta che, al di là di tutte le dicerie, Mazzini si fosse sempre rifiutato di raggiungere la Sicilia perché, «come ebbe a dire: “Garibaldi non mi ama più”» (p. 139). Cavour procede, granitico e ostinato, sordo a ogni consiglio che non sia già in linea con il suo pensiero, e lo sdegno di Bianciardi si fa palese negli ultimi capitoli, quando si osserva il trattamento riservato ai garibaldini (e al Meridione tutto) dopo l’annessione e la creazione del Regno d’Italia.

Lo scarto tra il sogno e la traduzione in pratica, tra le ambizioni per un’Italia unita, libera, ma anche socialmente più giusta, e l’imposizione – veloce, forse inevitabile, sicuramente miope – del modello piemontese è oggetto di un’osservazione a tratti amara, a tratti caustica, che costituisce però il fine primario del volume, così come viene descritto nella prefazione di Errico Buonanno che, quasi quasi, varrebbe da sola l’acquisto di questa nuova edizione.

Buonanno riesce infatti con intelligenza a conciliare la visione di un Bianciardi irregolare, un Bianciardi “contro”, un Bianciardi in lotta con il sistema, con il Bianciardi appassionato del Risorgimento. Anche lui, infatti, come alcuni dei “Padri della Patria”, e Garibaldi forse più di tutti, è stato oggetto di una canonizzazione riduttiva e semplicistica, che voleva negarne la complessità, i rivolgimenti emotivi e fattuali, il cambio di passo che fa parte di qualunque esistenza.

Il suo Garibaldi, ci dice Buonanno, «non è l’eroe, non è il monumento. È l’uomo» (p. 12). Ed è proprio questa volontà di cogliere sulla pagina, tra le pagine, una figura che abbia lo spessore della verità, al di là di ogni tentativo di appropriazione messo in atto dalla politica successiva, che rende tuttora meritevole di lettura Da Quarto a Torino e, in generale, questo Bianciardi considerato “minore”, in cui tuttavia si esprime tanto di lui, del suo stesso slancio, delle sue stesse battaglie:

Seguite l’autore mentre vi racconta tutto ciò che i manuali di storia hanno considerato superfluo: […] la sincerità di Giuseppe Garibaldi, che vinse tutto e sbagliò tutto. Fatelo anche se già sapete come va a finire la storia, perché l’intento di Bianciardi è più importante del finale amaro: se anche alla fine i burocrati ci avranno […], noi siamo stati veri. Abbiamo lottato, abbiamo sbagliato, e siamo stati sognatori, e non eroi; e siamo stati probabilmente degli illusi, va bene. Ma almeno noi siamo stati vivi. (p. 13)

 Carolina Pernigo