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Menzogna e verità creano realtà alternative nell’incredibile "Un castello di bugie", thriller psicologico dell’islandese Snæbjörn Arngrímsson

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Un castello di bugie
di Snæbjörn Arngrímsson
Carbonio editore, 27 ottobre 2023

Traduzione di Silvia Cosimini

pp. 390
€ 21,00 (cartaceo)
€ 10,99 (eBook)


Cosa c’è di più soddisfacente di un libro che tenga incollati alle pagine, la cui storia attiri come una calamita il lettore che non chiede altro che farsi magicamente coinvolgere? Poco meno di quattrocento pagine divorate in poche ore, complice la penna di Snæbjörn Arngrímsson, pluripremiato scrittore di libri gialli per ragazzi, stavolta approdato al thriller. Misteriosi fiordi desolati, paesaggi industriali allucinati, una coppia in crisi, un marito affascinante e enigmatico che non si fa più vivo, punti di tensione ben architettati e posizionati a intermittenza tra le pagine - che non lasciano di certo annoiare il lettore - sono gli ingredienti strategici per la creazione di un romanzo magnetico e intelligente.

Focus di questo libro sono le bugie, anzi la capacità che hanno le bugie di mescolarsi alla realtà e creare mondi in cui anche chi ha inventato la bugia finisce per crederci: il risultato narrativo è straniante e straordinario. Chi legge viene destabilizzato in continuazione, poiché mentre è convinto di aver afferrato il bandolo della matassa, ecco che gli viene strappata di mano e deve di nuovo proseguire nella storia andando a tentoni fino ad un nuovo punto fermo, una speranza di una risoluzione finale che viene opportunamente disattesa. Un simile meccanismo, senza l’abilità di Arngrímsson, rischierebbe di estenuare il lettore,  che invece è trascinato dal magnetismo della fiction del libro. 

La tessitrice di menzogne è Júlía, voce narrante chiaramente inattendibile, che racconta su un doppio binario il presente in cui è alla ricerca di suo marito Gíó, sia il passato dell’antefatto e dei suoi ricordi in Italia dov’era cominciata la storia d’amore con lui. Tutto ha avuto inizio, come lei racconta, con un gita nel fiordo di Hvalfjörður.
Avevo accettato un incarico da una casa editrice di libri scolastici, mi avevano commissionato un testo su alcune protagoniste femminili delle saghe islandesi. Tra queste donne intraprendenti c’era Helga Haraldsdóttir, la figlia di uno jarl che si era fatto mille seicento metri a nuoto, da Geirshólmi, un’isoletta sul fondo del Hvalfjörður, fino al punto della costa che adesso porta il suo nome, Helguvík. (p.11)

Quella che si prospettava essere una piacevole gita da fare nel pomeriggio per mescere l’utile al dilettevole diventa l’inizio di un incubo: in seguito a un battibecco col marito che si era trascinato controvoglia al fiordo insieme a lei su un gommone male in arnese, Júlía, presa da un ictus, da una furia insana, risale sul natante lasciandolo solo, in quel luogo dimenticato da Dio, al buio, al freddo e sotto un’incipiente pioggia.

Mi ero staccata una ventina di metri più o meno dalla riva, quando voltandomi vidi che Gíó si era alzato in piedi. Stava sulla sommità dell’isola, dritto e muscoloso, il fisico allenato. Mi osservava in silenzio mentre puntavo verso la costa.(p. 18)

Rinsavita dopo qualche minuto, torna indietro col gommone, ma di Gíó nessuna traccia. Júlía combatte contro le paure e le ombre di quella notte spostandosi dallo scoglio dove lo aveva lasciato alla stazione baleniera e urlando il suo nome, ma tutto intorno è buio, ogni edificio chiuso a chiave, non c’è anima viva che possa dirle dove sia andato Gíó, vi sono solo l’odore del mare e l’angoscia che le chiude lo stomaco. Dopo aver atteso a lungo senza avere notizie di suo marito, la donna è costretta a chiedere aiuto alle forze dell’ordine e così entrano a far parte della storia altri personaggi, tra cui i due agenti di polizia con i quali sarà a stretto contatto e María, sua sorella. Durante le ricerche la protagonista ci rende partecipe dell’inizio della sua storia d’amore con Gíó, conosciuto in Italia, la loro breve permanenza nella penisola e la scoperta di un taccuino che insospettisce la donna su un aspetto di suo marito che aveva finora ignorato. 

A questo punto devo aggiungere, o magari ripetere, che spesso mi è capitato di pensare che nonostante io lo conosca da molti anni, in un certo senso per me Gíó è un enigma, lo è sempre stato. So che suona un po’ come un cliché. Io odio i cliché, eppure è così, quell’uomo non l’ho mai capito del tutto, ma ho sempre amato la versione che conoscevo. Parlava raramente di sé, evitava le questioni personali. Era come se avesse paura di manifestare il suo lato privato. Forse aveva sempre avuto paura di scoprirsi, di rivelare i segreti che si portava dietro. Io non li conoscevo tutti. (p. 92)

Gíó ha davvero dei segreti che non ha osato confessare a Júlía? Cosa c’è scritto in quel taccuino che la donna trova in casa e che vede per la prima volta? Appartiene davvero a suo marito, anche se la sua scrittura e la qualità della stessa sono troppo accurate per farle pensare che quelle pagine siano state vergate da lui? Le domande che però assilleranno il lettore sono ben altre! Quanto c’è di vero nelle parole di una protagonista che mente palesemente ai poliziotti? E se mente anche al lettore? Una narratrice consapevole di amare le bugie, di amarle al punto da confonderle con la realtà stessa? L’espediente di rendere partecipe il lettore alla costruzione del suo “castello di bugie”, in qualche modo lo rende complice: il lettore sa quando Júlía mente ai poliziotti, è dentro di lei, ne legge i pensieri più intimi e nascosti, le sue gelosie inconfessabili verso sua sorella María sin da quando erano bambine, i momenti in cui desidera cercare Gíó da sola, le sue angosce più nere. 

Eppure, come si è già detto, Júlía è inattendibile come narratrice: fa credere al lettore di renderlo partecipe delle sue azioni, ma non è così, o almeno, non è così fino in fondo, poiché a un certo punto della storia lei lo abbandona impietosamente e lo lascia vagare tra i dubbi: gli lascia qualche indizio, questo sì, ma sembra invitarlo al gioco sottile della costruzione di verità alternative.

Non è onesto mentire. Questo l’ho imparato. Ma quando la verità ha come conseguenza la distruzione, è giustificabile essere disonesti e dire cose che suonano meglio della verità. A volte mento per impreziosire l’esistenza, per rendere il mondo più misterioso e avvincente. (p. 106)

Mentire, inventare storie per allietare le persone, come Júlía faceva da bambina per strappare un sorriso a sua madre malata chiusa in casa, non sono l’anima dell’ars narrandi? È così che nasce la letteratura - che sia di genere o no - : dal bisogno dell’uomo di ascoltare storie. Ma è necessario anche che qualcuno le sappia raccontare. Non a caso la nostra protagonista è una scrittrice, forse lo è anche Gíó se quel taccuino è suo… ma chi può dirlo? Io sicuramente no, anzi, mentre sto scrivendo questa recensione, toccando solo alcuni punti essenziali, ma che non rivelino troppo, confesso di avere ancora altre illuminazioni circa la risoluzione finale, perché questo romanzo stimola la riflessione, è coinvolgente e magnetico.

Marianna Inserra