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All’apice della distruzione totale l’uomo perde anche sé stesso. “Flashover” di Giorgio Falco, l’esperimento di un doppio romanzo, di parole e di immagini

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Flashover. Incendio a Venezia 
di Giorgio Falco
Einaudi, settembre 2020

pp. 190
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)


Le prime due fasi dell’incendio, ignizione e propagazione, durano circa mezzora, poi inizia la fase dell’incendio generalizzato, il cosiddetto flashover.[…] Il flashover indica lo sviluppo completo dell’incendio, soprattutto all’interno di un luogo chiuso; la temperatura è altissima, uniforme, e non si verifica più il rapido aumento tipico della fase di propagazione: tutti gli elementi bruciano all’unisono, il fuoco raggiunge la totalità delle superfici disponibili, ogni cosa non si rivela per come appariva pochi minuti prima, ma in quanto fuoco. Il flashover identifica il momento di transizione tra un incendio in crescita e un incendio nella sua fase matura. C’è qualcosa di malinconico in ogni flashover su cui incombe la distruzione: la distruzione portata da se stesso, la distruzione di se stesso. (pp. 37-38)

Flashover è un libro che non ha eguali: non è propriamente un romanzo, né un reportage di cronaca, né un saggio. È un’opera letteraria realizzata con le parole di Giorgio Falco e con le fotografie di Sabrina Ragucci, quindi è un libro dove il testo scritto si intreccia con quello visivo

Immagine tratta dal libro

Il pretesto narrativo - perché di pretesto si parla - è l’incendio che illuminò il cielo di Venezia la sera del 29 gennaio 1996 divorando il prestigioso teatro La Fenice: questo è il falso focus da cui scaturisce un’opera che si basa sulla ricostruzione di un disastro che fece all’epoca molto scalpore, ma anche e soprattutto sulla decostruzione di questa storia vera. È un’opera che parla della società italiana degli ultimi quarant’anni, delle sue abitudini, del mito del benessere economico, del periodo del boom dei prestiti e dei mutui bancari, del bisogno di beni costosi superflui, della fine dell’epoca dei “sacrifici” della generazione precedente. La metà degli anni Novanta segna una sorta di consumismo maturo e consolidato. 

Gli attori dell’incendio, Enrico Carella e il cugino Massimiliano Marchetti suo complice, quella fatidica sera, approfittando della presenza di vernici, lacche corrosive e solventi pericolosamente infiammabili all’interno del teatro, lasciano intenzionalmente acceso un cannello, un attrezzo utilizzato per piegare i tubi dove far passare i cavi elettrici. «Il cugino è appena uscito di prigione, una detenzione di quarantacinque giorni, esito di un arresto per spaccio di droga. Marchetti ha bisogno di lavorare, Carella ha bisogno del cugino, entrambi hanno bisogno di droga» (p. 11). Enrico Carella è titolare della Viet, una ditta individuale che si occupa di impianti elettrici ed ha un contratto di subappalto per la Fenice di Venezia: non vi è  un regolare bando, essendo figlio del titolare della Elettrotecnica Argenti, la ditta romana che ha vinto l’appalto.

(La gara d’appalto consiste nell’essere stato procreato dal padre, nell’essere diventato imprenditore. Milioni di anni nella storia dell’umanità e siamo ancora davanti a un padre e a un figlio, un figlio ormai cresciuto, che forse non desidera nemmeno essere adulto, desidera essere padrone, poiché in ogni padrone resta una traccia d’altro, se stesso bambino e ragazzo: ogni padrone può travestirsi da adulto). (p. 13 )

A Falco però non interessa la cronaca in sé, bensì scrivere un romanzo, un’opera letteraria e quindi, dopo le prime pagine in cui richiama i moventi e i protagonisti dell’inferno che distrusse quel meraviglioso teatro veneziano, spiega la necessità di cambiare i nomi dei due colpevoli: cugino padrone e cugino dipendente, usando le minuscole

Uniti dal lavoro, dalla parentela, dalla droga, in un vincolo che riflette la condizione lavorativa: Marchetti è il cugino dipendente, Carella è il cugino padrone. Il cugino padrone e il cugino dipendente. (Il cugino padrone: cugino padrone, in minuscolo, e non Cugino Padrone, in maiuscolo. In maiuscolo sarebbe un personaggio unico, con la pretesa di concentrare su di sé le caratteristiche di tutti gli altri cugini padroni esistenti; Cugino Padrone, in maiuscolo – unità dichiaratamente personaggio, archetipo, modello di imprenditore parente –, attraverserebbe la vita partendo da una condizione privilegiata. Invece qui non serve costruire la gabbia del nome proprio, del soprannome o del nickname, per essere se stesso e annettere la biografia di tutti; lui è il cugino padrone nel suo farsi quasi personaggio, nel suo essere agito in minuscolo; […] (p. 11)

Immagine tratta dal libro
Questa scelta, spiegata tra parentesi - espediente metaletterario che torna più volte nel corso dell’opera - serve a evitare che la pura narrazione cronachistica possa “sporcare”, invadere il campo della letteratura, che ha invece un compito completamente diverso da quello di riportare i fatti e le azioni; l’utilizzo di nomi come cugino padrone e cugino dipendente serve, infatti, a porre i due protagonisti dell’incendio al di sotto della soglia dei personaggi e al di fuori della mera cronaca di quell’evento. Il cugino padrone è titolare della ditta, ma è completamente spersonalizzato, potrebbe forse incarnare qualsiasi «giovane uomo» che verso la seconda metà degli anni Novanta, obbedendo alla spinta voluttuaria di comprare una costosa BMW, «pur vivendo su un isolotto veneziano» (p. 6) stipula un finanziamento, poiché l’automobile costa «trentacinque stipendi di un operaio, ma è semplice possederla, bastano tre mesi di paga per avere subito le doppie chiavi: tutto il resto a rate» (p. 5). Il rifacimento dell’impianto elettrico del teatro deve, per contratto, essere ultimato entro la fine di febbraio, altrimenti il cugino padrone dovrà pagare una salatissima penale.

Il risultato di questa pressione multipla, frutto di quella società - che è ancora la società di oggi in realtà - di quelle istituzioni, di quella cultura del chiavi in mano con i debiti che ti strozzano come mani invisibili alla gola è proprio il flashover del teatro La Fenice. Quest’incendio non ha nulla di artistico, non rappresenta una fenice che rinasce dalle proprie ceneri, immagine evocata già da chi sta pensando di approfittare della situazione per lanciarsi in un appalto per la ricostruzione, e non è neppure un atto terroristico puntualizza Falco:

E invece, niente arte né terrorismo. Al momento, ci sono due ragazzi, uno dei due, in particolare, con gli schei in testa, la droga in testa, la figa in testa, la Bmw in testa, le rate in testa, il peso del lavoro in testa, il padre in testa, la madre in testa. Secondo i parametri del sentire comune italiano, l’incendio sarebbe una ragazzata, di centoventi miliardi di lire […] ( p. 55)

Ogni opera di Falco è una composizione, il prodotto di più componenti: non è mai opera di pura trama, ma sperimentazione che spinge al massimo fin dove la parola scritta e le immagini offrono diverse possibilità di comunicare il reale, diversi modi di leggerlo. Parti saggistico-descrittive inserite nella narrazione, pause e frasi più o meno brevi tra parentesi, come se ci fosse una voce fuori campo narrativo a commentare o ricordare le dichiarazioni dei colpevoli e di coloro che vennero interrogati quattro anni dopo l’incendio). Le settantaquattro fotografie scattate da Ragucci costituiscono il romanzo parallelo a quello scritto, un romanzo visivo con il suo protagonista d’eccezione: un personaggio che indossa una maschera bianca. Tutte quelle fotografie rappresentano «l’alfabeto della distruzione» (p. 157), la distruzione del sé e della corporeità, o meglio, della gestualità dei corpi: questo alfabeto rappresenta la società italiana degli ultimi decenni e del mondo occidentale. Si è passati dai dai gesti dei brokers di borsa, le cosiddette «grida» (p. 157)  alla contrattazione telematica, che non prevede la presenza dell’uomo e ciò è visto come un impoverimento del mondo. Dietro il flashover c’è il linguaggio della compravendita, il capitale, la finanza sono ombre che contribuiscono alla distruzione totale. Fiamme singole convergono tutte insieme e diventano un’unica cosa, l’incendio diventa globale ed irreversibile, siamo di fronte all’apice della distruzione.
Immagine tratta dal libro

Ma il capitale occupa ogni istante dell’esistenza, anche quello dello svago, del tempo libero. I turisti che fotografano se stessi sorridenti davanti alle macerie carbonizzate della Fenice, rinchiudendo i propri corpi all’interno degli ultimi rullini novecenteschi poco prima del passaggio al digitale, sono i messaggeri della transizione verso una nuova epoca. (p. 80)

Del flashover restano le macerie (che non hanno lo stesso valore turistico delle rovine, precisa l’autore) restano i fatti e le azioni, sono questi ultimi che contano più dei pensieri e delle opinioni: ecco la scelta stilistica di usare la maschera semantica del cugino padrone per sostituire Carella, del cugino dipendente che sostituisce Marchetti. E la maschera del romanzo visivo della Ragucci che rappresenta il nostro sguardo sul mondo, su ciò che resta dopo la distruzione in cui l’uomo distrugge sempre un po’ di sé.

L’impercettibile distanza tra maschera e volto, è simile all’impercettibile distanza tra fiamma e fiamma. È un gioco dialettico, non essere completamente unite, non essere completamente separate: cosí funziona l’incendio globale, l’incendio ultimo, il segreto tra maschera e volto, il segreto tra fiamma e fiamma. Il volto, quando finisce di essere maschera, diventa ciò che non è piú. Il fuoco, quando finisce di essere fuoco, diventa le cose che ha bruciato. (pp. 173-174)


Marianna Inserra