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A Ennio, a Roma: "Diario di un'estate marziana" di Tommaso Pincio

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Diario di un'estate marziana
di Tommaso Pincio
Giulio Perrone Editore, novembre 2022

pp. 180
€16,00 (cartaceo)

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Diario di un’estate marziana è un libro anomalo, magico in tutti gli aspetti: la struttura, la lingua, e anche la genesi. Tommaso Pincio è partito da lì, dalla genesi, per raccontare il libro durante la scorsa edizione di Più Libri Più Liberi, a Roma nel dicembre 2022. Un libro nato per caso, dal rifiuto di scriverne uno diverso.
Dalla Giulio Perrone era arrivata la proposta di scrivere un libro sulla California di David Lynch per la collana “Passaggi di Dogana”: la proposta era più che azzeccata, visto che Pincio stima il regista americano e ama raccontare di quando, durante un’intervista che doveva realizzare per Rolling Stones, quello gli chiese duemila dollari per promuovere il suo film. 
Proposta azzeccata, dunque, ma Pincio rifiuta. Da lì, tuttavia, dall’essenza dei "Passaggi di dogana" – ovvero guide letterarie di una città come vissuta da uno scrittore o artista che l’ha amata – gli nasce una nuova idea: «ho pensato di voler scrivere di Roma e Flaiano», ha detto, «ma poi la cosa è cambiata ancora». 
Durante la scrittura Pincio si è presto accorto che quello che si stava formando non era una mappa dei luoghi di Flaiano, né tantomeno una sua biografia: «ho capito che mi interessava raccontare l’atmosfera in cui stavo io, il qui e ora, mentre pensavo a Flaiano e camminavo attraverso Roma d’estate». Chi ha citato come modelli? Natalia Ginzburg, Virginia Woolf, e il loro trattamento del tempo e dell’atmosfera a discapito di una trama significativa. 

Da qui, lo scivolamento nel diario, e poi in una forma ibrida figlia del mescolamento con il romanzo, il saggio, la metaletteratura. «Non avevo deciso in partenza che questo libro dovesse prendere la forma di un diario. È capitato. Forse perché era estate e lo stillicidio di una stagione che sembra esistere per finire mi ha fatto sentire particolarmente fraterna la malinconia di Flaiano». (p. 153) Il genere letterario rappresenta una questione primaria quando si voglia parlare di Flaiano: uno scrittore che ha scritto un solo romanzo, Tempo di uccidere, che non crede nei tempi lunghi della narrazione, che eccelle nel racconto ma viene ricordato soprattutto per aforismi che, in larga misura, non sono neppure suoi. Sceneggiatore, anche se «scrivere per il cinema stanca ed è assolutamente inutile»; giornalista, sicuramente, amante della forma breve per vocazione o per pigrizia: 
Un articolo, un racconto, un pezzo qualsiasi. Non menziona altro. Il romanzo, è vero, ha tempi fisiologicamente lunghi […]. La sua dimensione era quella dell’appunto. (p. 82) 
L’operazione narrativa messa in atto da Pincio è al contempo spontanea, come solo una pagina di diario sa essere, e sofisticata in modo geniale. Flaiano non è protagonista del libro, l’estate di cui si parla non è la sua, non è lui a camminare, nel presente, per le vie di una Roma bruciata, indifferente, violenta. Eppure Flaiano è presente in ogni pagina, è il dedicatario di ogni riga, la sua figura viene evocata attraverso citazioni sue o degli amici che l’hanno conosciuto ai tempi di una Roma diversa: tempi in cui si andava al cinema e non a vedere un film, e c’erano salotti letterari e intellettuali riuniti ai caffè, la Roma un attimo prima della Dolce vita, in cui Fellini poteva ancora dire «Via Veneto? Mai frequentata». 

Protagonista, dunque, non è Flaiano ma lo sguardo che lo cerca per le vie di Roma e in un passato irraggiungibile. Pincio ha parlato di paesaggi psichici, e ha detto di ammirare per questo la pittura orientale: «gli orientali hanno un andamento verticale, anziché dipingere il paesaggio dipingono la persona che lo sta guardando, che in esso si sta specchiando», ha detto. 
In questo modo i diari che si vengono a delineare sono due: quello immaginario di Flaiano e quello autentico eppure così onirico di Pincio. Entrambi raccontano di una Roma afosa che non si fa amare facilmente ma che è impossibile lasciare: 
Sembra di averla amica e invece ti accorgi che non potrai mai afferrarla interamente: ci sono dei lati che ti sfuggono e ti senti eternamente barbaro, condannato ad amarla senza sperare nulla. Triste situazione per me, che respiro soltanto a Roma. (p. 56) 
Così scrive Flaiano, appesantito da quella malinconia che lo prende alla fine dell’estate lui che, l’estate, la ama disperatamente. Secondo Pincio l’amore smisurato di Flaiano per l’estate ha a che fare col fascismo. Flaiano infatti arriva a Roma a dodici anni, il 28 ottobre 1922, il giorno della marcia su Roma: è solo, su un vagone di terza classe, circondato da fascisti che si preparano a scendere e spargere l’inverno sulla città. Flaiano scriverà spesso che il fascismo gli ha rubato la giovinezza: amare l’estate in questo senso significa resistere al grande inverno, sempre, con ogni mezzo. 

E anche se a Roma non è sempre estate, come può pensare con invidia chi abita certe zone gelide del nord Italia, sembra che Roma sia l’estate: lo è per quel germe di disillusione che ha chi vede già la fine delle cose, anche se vorrebbe «che l’estate non finisse mai o almeno durasse a lungo». Quell’indifferenza e incapacità di stupirsi che Flaiano aveva capito, e che rappresenta nel suo racconto Un marziano a Roma: la storia dell’abitante di Marte che scende sulla Terra, atterra a Roma dove viene accolto con grandi festeggiamenti e poi, passato l’entusiasmo iniziale, scivola nella monotonia e nel disincanto anche verso se stesso: 
È diventato come noialtri romani, che non crediamo mai a niente, e come Flaiano […] consapevole che è inutile fare di più; consapevole che alle nostre latitudini i personaggi sono tutti marziani, creature condannate all’improbabilità e perciò non in cerca d’autore ma di qualcuno che li scambi per veri, fosse anche per sbaglio. (p. 33) 
La prosa di Pincio è meravigliosa: verrebbe da dire poetica, a tratti, ma bilanciata dalla stessa tensione verso la materialità, «la realtà spicciola», che vede in Flaiano e che costituisce il paradosso di Roma: una città che è «un’immensa scenografia concepita per far sentire i suoi abitanti minuscoli, transitori, irrisori». La sua lettura di Roma, e di Ennio Flaiano, non può, non deve essere oggettiva: è il racconto del suo punto di vista, delle letture che accompagnano le sue estati – Manganelli, Durastanti, Arbasino, Dostoevskij, tra i moltissimi altri –, dell’odiamore o amorodio che è l’unico sentimento che si può provare a Roma, per Roma. 

Forse proprio con questo suo stravagante modo di essere scrittore Flaiano ha lasciato un’immagine della letteratura che svincola da ogni genere, compiutezza o pubblicazione, e che Pincio recupera alla perfezione: 
Raccontiamo – e ricordiamo – per dare un senso ai fatti, per individuare un vizio, un errore, una direzione, il momento in cui le cose hanno preso una certa piega. (p. 38)

Michela La Grotteria