in

La rivolta passa attraverso le parole: l'America distopica de "I nostri cuori perduti" di Celeste Ng

- -

 



I nostri cuori perduti
di Celeste Ng
Mondadori, 2022
 
Titolo originale: Our Missing Hearts
Traduzione di Federica Aceto
 
pp. 339
€ 20,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


 
I nostri cuori perduti è la storia di un ragazzino dodicenne, Bird, la cui madre si è allontanata da casa quattro anni prima senza più dare notizie; è la storia di una donna, Margaret Miu, la cui poesia è stata eletta voce di un movimento di resistenza antigovernativo e che è quindi costretta a nascondersi suo malgrado, lasciandosi dietro tutto ciò a cui tiene; è la storia di una nazione che, dopo una pesantissima crisi economica e sociale, ha trovato un capro espiatorio perfetto e una formula per neutralizzarlo.
Gli elementi della distopia politica incontrano qui quelli del romanzo di formazione: nella prima parte del romanzo, infatti, attraverso una focalizzazione sul personaggio di Bird, vediamo il progressivo delinearsi di un ambiente ostile. Da dieci anni è in vigore il PACT, un pacchetto di leggi formalmente atte a “preservare la cultura e le tradizioni americane”, di fatto strumento di controllo, veicolo di un’ideologia nazionalista e fondamentalmente razzista, per cui se hai origini straniere, specialmente se orientali, rappresenti una minaccia.
Benché il nemico giurato sia identificato con la Cina, agli occhi del cittadino medio non c’è alcuna differenza tra cino-americani, giapponesi, coreani, o qualunque altra popolazione di origine asiatica; lo stesso acronimo PAO (Person of Asian Origin), pur non rimandando a un reato preciso, implica sospetto, e spesso bastano dei lineamenti che denuncino tale provenienza per scatenare episodi di violenza incontrollabili, sotto lo sguardo connivente delle autorità.
Esprimere opinioni contrarie, o anche soltanto dubbi in merito al PACT e alle pratiche che ne derivano porta a essere bollati come antiamericani, e le ricadute sul piano professionale e personale sono massicce. Tra i provvedimenti più radicali, c’è anche l’allontanamento dei bambini da famiglie etichettate come eversive: i figli di sospettati e inquisiti vengono ricollocati in famiglie affidatarie che rappresentino modelli educativi più “sani”, e sono spinti a dimenticare i genitori biologici. La cancellazione, del resto, è pratica diffusa: dalle librerie e dalle biblioteche vengono rimossi tutti i volumi che possano alimentare il dissenso.

La critica sociale di Celeste Ng è feroce e, pur collocandosi la narrazione in un futuro prossimo, sono evidenti gli strali lanciati contro un’attualità in cui la censura e i pregiudizi spesso si presentano in forme mascherate, anche in un Paese che si propone come campione di modernità:
Che fine hanno fatto?, chiede dopo qualche istante. Tutti quei libri.
Gli torna in mente un’immagine che ha visto durante l’ora di storia: mucchi di libri dati alle fiamme, in una piazza. […] La bibliotecaria gli lancia un’occhiata in tralice e ridacchia.
Oh no, qui i libri non li bruciamo mica. Siamo… siamo in America. Giusto? […] Noi non li bruciamo i nostri libri, dice la bibliotecaria. Li mandiamo al macero. Una cosa molto più civile, non trovi? Li facciamo a pezzi, li ricicliamo e li trasformiamo in carta igienica. (p. 67)
È proprio però in una biblioteca, seppur svuotata di molto del suo contenuto, che Bird si presenta a chiedere notizie quando riceve un criptico bigliettino, che attribuisce senza dubbio a sua madre. Al centro della narrazione, sta infatti la parola, che rivela la sua forza distruttiva e disgregatrice nell’utilizzo strumentale che ne fa il PACT, ma anche il potenziale rivoluzionario, quando diventa veicolo di storie, esca altamente infiammabile di una rivolta che continua a scorrere sotto la quiete apparente e che esplode in piccole, ma significative azioni di disturbo nel tessuto urbano. Ogni gesto, ogni segno lasciato dalla resistenza, è sempre accompagnato da una frase, che si ripropone in molte varianti per reclamare un’unica necessità: la restituzione dei “nostri cuori perduti, dei semi strappati al frutto maturo, “sparsi in giro, perché germoglino altrove” (p. 201). È nella ferita inflitta da una politica stolida, si nasconde l’istanza della ribellione. E nella stessa lacerazione si inscrive il movimento che riconduce un figlio abbandonato verso una madre in fuga.

Il cambiamento della focalizzazione, nella seconda parte del romanzo, coincide con un lungo flashback di Margaret, che racconta a Bird gli eventi degli ultimi anni, e ancora prima quelli della Crisi che ha condotto alla realtà distorta, straniante, in cui vivono. Il prezzo di questo momento chiarificatore, pure funzionale a tratteggiare il contesto di riferimento, è un netto rallentamento della narrazione. Il lettore avverte fortemente il cambio di passo, dopo aver atteso un’accelerazione che di fatto viene ulteriormente posposta.
Margaret è stata educata a tenersi sempre fuori dai guai, a vivere una vita quieta e onesta, sicura e sostanzialmente incurante. Quando gli eventi la travolgono, non è per sua volontà: i versi di una sua poesia, neanche la migliore, sono stati ripresi, reinterpretati, sono diventati espressione di un messaggio rivoluzionario che lei non aveva inteso. Eppure, nel momento in cui la realtà infrange la bolla della sua sicurezza, ecco che la donna si rende conto di non poter più restare indifferente, diventa ciò che veniva accusata di essere: 
Margaret poteva adottare un nuovo nome, cercare di non attirare l’attenzione. […] Aveva ripensato ai suoi genitori, a come avevano vissuto tutta la vita cercando di evitare i guai, e alla fine erano stati i guai a trovare loro. Forse, aveva pensato, a volte l’uccello che tiene la testa alta è quello che spicca il volo. Forse a volte il chiodo che spunta punge il piede che si abbassa per pestarlo. […] L’idea non era ancora completamente formata nella sua testa, era solo un bisogno: il bisogno di rimediare per tutti gli anni in cui aveva deliberatamente scelto di girarsi dall’altra parte, di non interessarsi. Gli anni in cui aveva pensato che non importava, finché succedeva al figlio di qualcun altro. (p. 244)
Quale sia l’idea non si può dire, perché rappresenta l’acme della narrazione. I nostri cuori perduti è un romanzo in cui c’è più cornice che azione, forse proprio per preparare la clamorosa azione finale. È nelle ultime cinquanta pagine che la bella prosa di Celeste Ng si impenna e riscatta la stasi della sezione centrale, in una descrizione appassionata di quella che è a un tempo una suprema ribellione e un estremo atto d’amore e di riscatto.

In piena coerenza con l’idea che sta alla base del romanzo, tuttavia, l’autrice si guarda bene dal percorrere vie tracciate o ricercate soluzioni semplici. Nell’ultima parte del romanzo, si torna infatti ai bambini, cuori perduti e forse ritrovati, speranza per un futuro diverso, pungolo al cuore dell’America, anche della più ostinata o indifferente. Ma se e cosa si smuove, non si può ancora sapere. Ecco perché si è incerti, alla fine, se propendere per un’interpretazione positiva, valorizzare l’ottica di fiducia che pure non manca, o guardare allo sviluppo degli eventi con una sottile, indistinta malinconia. 
 
  Carolina Pernigo