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Di fronte al dolore e alla perdita, la necessità di fare ordine: "Il nostro meglio" di Alessio Forgione

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Il nostro meglio
di Alessio Forgione
La nave di Teseo, 2021

pp. 288  
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
 
 
Nel suo nuovo romanzo, Alessio Forgione ritorna alle origini, sotto molti punti di vista: il protagonista de Il nostro meglio è infatti lo stesso Amoresano che il lettore ha già incontrato in Napoli mon amour (trovate qui l'intervista di Elena Sassi all'autore), solo che qui lo si ritrova più giovane, alle soglie dei vent’anni, in un momento di transizione che rischia di diventare paralisi esistenziale.
L’idea di un percorso a ritroso è rimarcata anche formalmente attraverso la numerazione decrescente dei capitoli, che ha la suggestione del conto alla rovescia e porta inevitabilmente a chiedersi quale sarà il punto di arrivo, lo zero da cui si può ricominciare a contare.
Evento drammatico e scatenante per il protagonista è la scoperta di una grave malattia della nonna amatissima, punto di riferimento tanto per l’infanzia quanto per la giovinezza. In un alternarsi di scorci sul passato e di aperture sul presente, attraverso una narrazione asciutta, paratattica, viene presentata la profondità di una relazione fatta di intimità e ricordi condivisi, di una comprensione reciproca che è ruvida e spesso inespressa, ma non per questo meno intensa o sincesa.
Amoresano, detto Chiccù, non è pronto ad affrontare la perdita, e infatti inizialmente la rinnega, rifiutandosi di guardare in faccia tanto la realtà, quanto il volto tanto caro che sfiorisce rapidamente. 
Non alzo la testa, perché sono un vigliacco. […] Non ho ancora vent’anni, vent’anni di irruenza e di tentativi mal calibrati, ed è come se qualcuno mi spegnesse la luce che ho davanti agli occhi. E penso. Penso che questo silenzio che sto creando è vasto e inospitale e vuoto come il mondo. […]
Le lacrime mi entrano nel naso e nella bocca.
È come affogare.
Affogare in se stessi.
È un dolore che prende e inghiotte, facendo scomparire tutto il resto. (p. 23).
Forgione innesta in un romanzo di formazione una riflessione sui rapporti fondanti l’identità, sul dolore lancinante che ci costringe a crescere nel momento in cui qualcosa minaccia i nostri cari, soprattutto quelli che associamo alla serenità e alla stabilità dei primi anni di vita. La malattia diventa il terremoto che abbatte le certezze e squarcia il velame sulla precarietà dell’età adulta, sull’ineluttabilità delle scelte. La sofferenza si muta in acuta e pungente consapevolezza, che permette di mettere a fuoco il reale in modo inedito. Ecco perché, tanto nei flashback sul passato la narrazione è agile, rapida come il tempo che passa, quanto nel tempo del presente indugia, si sofferma, si fa contemplativa e introspettiva al tempo stesso. La voce narrante è sia sguardo che osserva il mondo, sia trivella che scava dentro all’anima.
Quella che Amoresano mette in atto è una dissezione del proprio dolore, un’operazione chirurgica talmente puntuale e profonda, a cuore aperto, che lui finisce di dubitare della propria stessa spontaneità, della sincerità del suo sentire. La stessa impressione di impostura, del tutto autoalimentata, è il tratto dominante delle sue esperienze e delle sue relazioni: la facoltà di scienze politiche, che frequenta quasi passivamente; il gruppo in cui suona la chitarra svogliatamente, senza riuscire a condividere l’entusiasmo e la passione dell’amico Angelo, pur invidiandolo un po’; la frequentazione di Maria Rosaria o Anna, ragazze diversissime tra loro ma ugualmente fragili, da cui si sente attratto senza riuscire a decidere del proprio sentimento o ad assumere una posizione netta. Ci sono tanti punti della narrazione in cui Amoresano potrebbe sembrare un inetto, e invece è solo giovane, e come tale subisce la propria vita, ancora incerto sulla via da intraprendere.
Le cose più importanti, nella prosa di Forgione, sono quelle che non vengono dette, che emergono tra le righe delle riflessioni del protagonista, in lampi dolorosi che si fanno palesi quanto lui si trova a Bagnoli, nella casa dei nonni dove è cresciuto. È proprio di fronte al declino di chi ama che il narratore lascia vedere le crepe, le ferite aperte: il senso che non si trova nel mondo esterno, in una Napoli caotica e rifulgente che però appare sempre estranea, si annida nelle mani grandi della nonna, nel suo corpo sempre più stanco, nel tradimento delle sue membra (“non è rimasto un solo angolo, un punto, un pezzo di pelle che non sia un’offesa”, p. 165). È al centro di quella camera da letto che si coagulano tutte le domande e tutte le risposte e, anche se non è detto che Amoresano sia già disposto ad ascoltarla, la verità che ne emerge risulta necessaria: 
Siamo […] quelli che rimangono quando la festa è finita e non c’è altro da fare se non pulire e ricordare. Noi, mettiamo ordine. Perché siamo costretti a fare sempre del nostro meglio, perché le carte che la vita ci ha concesso, da sole, non sono abbastanza. (p. 213)
Alessio Forgione torna in libreria con un romanzo intriso di musica e letteratura, che pone il suo io narrante di fronte al confine sottile che c’è tra la vita e la morte, tra l’innocenza e le responsabilità del mondo adulto. Pur suo malgrado, Amoresano è costretto a schierarsi, a indagare il proprio sentire, ad attraversare quel magma di sentimenti che si deve superare per potersi addentrare, in via definitiva, nel proprio futuro.
 
 
Carolina Pernigo