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Cartografie di una città che sfuma nell’acqua: in “Hong Kong. Racconto di una città sospesa”, Marco Lupis racconta le storie, i conflitti e i destini di una città in bilico tra Oriente e Occidente

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Hong Kong. Racconto di una città sospesa di Marco Lupis



Hong Kong. Racconto di una città sospesa
di Marco Lupis
il Mulino, febbraio 2021

pp. 376
€ 18 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)


L’analisi dell’assetto urbano e sociale di una città potrebbe passare per la definizione greca di “energia” – o enérgeia -, cioè la forza necessaria per la realizzazione e il rinnovo di una capacità e di uno sforzo, normalmente accompagnati da un senso di piacere. Da questo punto di vista, le città che hanno alle loro spalle un passato coloniale si rivelano luoghi eccezionali: grazie alla loro stratificazione storico-urbanistica e al loro eclettismo derivato dalla convivenza dell’antico con il moderno nello skyline cittadino, queste città dimostrano di avere un substrato di energia potenziale che viene costantemente rilasciato e che va a definire le dinamiche di interazione sociale e interpersonale tra i suoi abitanti. Il mondo delle città coloniali è fortemente misturato, in cui si incontrano realtà plurali e variegate che coinvolgono tipologie umane, immaginari, miti, racconti, ricordi, oggetti, simboli, storie e temporalità differenti che, paradossalmente, riescono a convivere assieme nonostante l’inesorabile scorrere del tempo. Ognuno di questi aspetti ha un valore e un’espressione politica nell’organizzazione dello spazio, nelle relazioni di potere che lì si stabiliscono e nelle sociabilità che vi si generano. In questo spazio, la forza della presenza coloniale ripropone - a livello di conformazione urbana – le stesse strutture di potere che stanno alla base dell’ideologia imperiale e che crea spazi simbolici e reali che rappresentano fisicamente l’opposizione binaria colonizzatore/colonizzato. Ed è attraverso questa chiave di lettura che vogliamo presentare Hong Kong. Racconto di una città sospesa di Marco Lupis, il nuovo volume edito da il Mulino e che ripercorre da una prospettiva personale ma allo stesso tempo oggettiva la storia dell’affascinante e misteriosa città, dalla sua fondazione fino ai nostri giorni.

In origine era la poesia della lingua cinese e tanta, tanta acqua. Hong Kong. In cinese il Porto profumato, città che sorge sul delta del Fiume delle Perle e formata in gran parte dalle 263 isole che – al contrario di ciò che si suole crede – costituiscono l’arcipelago che è parte integrante dell’urbe. Nata dall’acqua e benedetta da Tin Hau, la dea del mare, la città è, secondo l’autore, «Terra di confine, snodo tra mondi e culture diverse, Hong Kong è un sogno nato da un incontro d’amore tra Oriente e Occidente» (p. 19). Marco Lupis ci accompagna dunque attraverso le strade della memoria (allo stesso tempo personale e storica), ripercorrendo la storia di Hong Kong, le sue caratteristiche e le sue tradizioni, mostrandoci perfino quei dettagli apparentemente meno rilevanti, ma che in realtà fanno di questo lungo racconto non convenzionale un susseguirsi di curiosità, ricordi e fantasmi di un passato prossimo in via di conclusione. Dalla geografia alla meteorologia, dal cinema alla cultura, dalle superstizioni alle tragedie, dall’architettura all’urbanistica, Marco Lupis racconta il frutto di un quarto di secolo di esperienze, lavoro e vita a Hong Kong, attraverso lo sguardo di un giornalista per il quale, nonostante tutto, quel posto è diventato inevitabilmente casa. Il lettore segue quindi Lupis attraverso le diverse isole che costituiscono l’arcipelago di Hong Kong, oppure si incammina con lui verso le oscure vie della Città Murata di Kowloon; percorrerà le linee tranviarie dell’isola di Victoria e si siederà al cinema con lui per assistere ai film di Bruce Lee; leggerà riguardo i macabri eventi di Hong Kong che, paradossalmente, assomiglia alla Londra di Jack lo squartatore, e imparerà come allontanare gli spiriti cattivi grazie a specchi ottagonali chiamati pat kwa; dato che «a Hong Kong non c’è mai stato tanto spazio per i vivi, figuriamoci dei morti» (p. 191), il lettore apprenderà poi le tradizioni legate al culto degli antenati da venerare nei numerosi e inquietanti “cimiteri verticali” che abbondano in città.

In questo viaggio, però, c’è un fantasma che infesta tutta la “narrazione”. Fantasma che ha contribuito - in modo assai contraddittorio - alla formazione e allo sviluppo di quella città che noi oggi conosciamo con il nome di Hong Kong: stiamo parlando dello spettro dell’Impero britannico che ha subordinato la città fino alla fine del secolo scorso. Nella sezione “Briciole d’Impero”, Marco Lupis racconta magistralmente le relazioni coloniali tra Inghilterra e la città di Hong Kong, dalle sue origini ai suoi più drastici sviluppi. La presenza inglese si afferma nel XIX secolo, principalmente a causa del commercio dell’oppio che creerà tensioni tra i due governi, sfociando nelle due famose Guerre dell’oppio. Sconfitta, la città diventa formalmente un possedimento britannico il 26 giugno 1843. L’espansione britannica a nord della città e con l’annessione dei cosiddetti “Nuovi Territori” porta l’Impero cinese a stipulare una sorta di “contratto di affitto” con gli inglesi, cedendo questi territori e la città di Hong Kong per un periodo di novantanove anni, dal 1898 fino al 1997. Da quel momento in poi, la storia del colonialismo inglese è stato come un grande orologio che batte le ore al contrario, avvicinandosi sempre di più alla sua fine e decadenza, portando con sé tutte le tipiche questioni coloniali che creano le opposizioni binarie tra i colonizzatori e i colonizzati, rese evidenti da pratiche di subordinazione (come i fantasmatici cartelli britannici affissi nei parchi pubblici con sopra scritto «Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi!») e di repulsione (i cinesi di Hong Kong definiscono infatti come gweilo gli occidentali, che letteralmente significa “diavolo pallido”). Quello che Marco Lupis riporta in queste pagine è allora una sorta di Imperial Nostalgia ma con un forte posizionamento critico, dimostrando come ciò che oggi è Hong Kong lo si deve in parte – non senza contraddizioni e problematiche – al periodo di dominazione britannico. Hong Kong diventa quindi un museo a cielo aperto, dove i resti dell’Impero cinese si intersecano con gli edifici dell’epoca coloniale inglese, dove la stratificazione del tempo e delle epoche è rappresentato dai diversi livelli sotterranei della città in cui convivono rovine imperiali, resti della Seconda guerra mondiale e tracce dell’invasione giapponese, dove anche la lingua diventa, in extremis, il luogo in cui l’ibridazione coloniale e il contatto tra culture si palesa contemporaneamente in modo ammaliante e complicato, portando il cantonese, il mandarino e l’inglese a condividere lo stesso spazio linguistico.

Con il 1° luglio 1997, la sovranità di Hong Kong torna sotto il dominio cinese, mettendo la parola fine all’imperialismo britannico. Si apre allora una nuova fase della storia della città, caratterizzata dalla formula «un paese, due sistemi» che tenta, sotto le direttive del Partito comunista cinese, di dare vita a un sistema che Lupis definisce «capital-comunismo o comunismo 2.0» (p. 318). Questa difficile convivenza tra due sistemi antitetici genere una tremenda tensione che crea una società caratterizzata dal divario tra ricchi e poveri, dal problema della disoccupazione, dalle continue rivolte dei giovani che chiedono un futuro migliore, dai problemi urbanistici ed ecologici. Ma ciò che rende unica la città è la capacità di resistenza e resilienza dei suoi abitanti: «Hong Kong continua a resistere. E speriamo che lo faccia sempre» (p. 265). E nel mezzo di questo maremoto di cambiamenti e transizioni, una figura continua a vegliare sulla città sospesa. Una donna vestita di rosso, con gli occhi fissi sulle acque del Fiume delle Perle, elemento in cui la città rigenera silenziosamente la sua identità e le sue tradizioni. È Tin Hau, la dea del mare, luogo in cui tutto inizia e finisce per Hong Kong, la città che resiste. Sempre.

Nicola Biasio