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Fare i conti con il passato può essere liberatorio? In "L'ultima testimone" di Cristina Gregorin la tormentata storia della Trieste del dopoguerra

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L'ultima testimone
di Cristina Gregorin
Garzanti, settembre 2020

pp. 311
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)



Ci sono lembi di terra che, più di altri, sono grumi di Storia, territori che il destino si diverte a portare alla ribalta ripetutamente sul palcoscenico degli eventi, città divise, abitate da contraddizioni. Luoghi nei quali la Storia geografica e le vicende umane si intrecciano. Quasi sempre questi nodi corrispondono a territori di frontiera laddove il confine traccia una linea di demarcazione che quasi mai rispetta lingue, culture, tradizioni, i vivi e i morti. Sicuramente Trieste e l'Istria si iscrivono a pieno diritto nell'elenco di queste terre contese e divise. 
Eravamo in guerra contro dei mostri, ma i mostri erano uguali a noi; avevamo giocato a calcio con loro fino al giorno prima, avevamo frequentato le stesse scuole, le stesse chiese, le stesse osterie (p. 141)
Fino al giorno prima amici, compagni di scuola, di giochi, di scherzi, di bevute... il giorno dopo nemici da abbattere senza troppi complimenti. Questo il destino amaro dei popoli di confine che, per decisione della Storia, vengono spezzati in due e divisi, parte di qui e parte di là, sotto diverse insegne. Non sono passati molti giorni dal 10 febbraio che, ogni anno, ricorda i massacri delle foibe e l'esodo giuliano-dalmata. Per ricordare brevemente ciò che accadde: il 10 febbraio 1947 furono firmati i Trattati di Parigi (a due anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale) secondo i quali l'Istria, Zara e altri territori della Venezia Giulia, già italiani, dovevano passare alla Jugoslavia, la nazione che allora riuniva le attuali Slovenia, Serbia, Croazia, Bosnia-Erzegovina. Ma già dal 1945 migliaia di italiani che vivevano di là, nell'Istria e nella Dalmazia, furono obbligati a lasciare tutto e a trasferirsi in Italia (dove spesso non trovarono una grande accoglienza, la povertà era ovunque), altri, a migliaia, furono invece giustiziati dalle milizie di Tito. Tra le morti più atroci, l'essere gettati ancor vivi nelle foibe, le profondissime cavità carsiche. 
È in questa epoca di violenza e di speranza, di paura e di illusione, che si muovono i protagonisti del romanzo "L'ultima testimone" di Cristina Gregorin. Un libro che si dipana, in realtà, su due piani temporali ben distinti, uniti però dagli ultimi sopravvissuti di quell'epoca, i nonni. Ed è proprio Bruno, 94 anni, che, capendo di avere ancora pochi giorni di vita, decide di fare i conti con il proprio passato, con un episodio tremendo che l'ha lacerato per tutta la vita e di cui non ha mai fatto parola non nessuno. Sceglie il nipote Mirko, storico e ricercatore, per affidargli gli ultimi pensieri e un compito:
Avevo un amico, tanti anni fa. Era come un fratello. Si è suicidato nel 1976. Si chiamava Vasco Cekic. Lo so, qualche volta i fratelli camminano sulle orme di Caino e Abele, ma non noi. Noi eravamo diversi. Speravamo in tante cose, alcune si sono realizzate, altre non ci sono mai state. L'unica che può conoscere la verità sulla sua morte è Francesca Molin, se ancora la ricorda, era solo una bambina (...). Ti prego, Mirko, trova Francesca Molin. Per la pace di tutti (p. 10)
Con queste poche parole il nonno Bruno, il nonno del gelato, dei palloncini alla fiera, il nonno-nonno per Mirko, squarcia il velo degli anni e torna giovane, fiero combattente, agli anni del dopoguerra. Francesca, che all'epoca aveva 12 anni, nel frattempo è diventata adulta, alla soglia dei 60 anni fa la ginecologa a Milano e il suo lavoro è portare al mondo tante nuove vite. Quello stesso mondo che lei, paradossalmente, ha deciso di negare a se stessa, chiudendosi in sé, non lasciando spazio a relazioni, ad amori, ad amicizie. Se non gli affetti che ha lasciato a Trieste, la sua città dove ancora vive nonna Alba. Che di Bruno un tempo fu amica e che con lui condivise certe idee, certe azioni, certi segreti. Perché a Trieste, nel dopoguerra, per tanti la guerra non era finita per davvero, ma ricominciava, sotto forma di vendette, di delazioni, di assunzione di responsabilità, di autogiustizia.
Tanti giovani avevano visto troppe cose, avevano subito troppi soprusi e credevano che fosse inevitabile che la giustizia potesse avere in sé anche i germi della vendetta. Un clima difficile, pericoloso nel quale la Francesca bimba era rimasta coinvolta suo malgrado... fino al giorno in cui accadde l'indicibile. Il suo segreto, il fatto di cui lei ora è rimasta l'ultima testimone, il fatto che lei ha cercato di seppellire dentro di sé, estraniandosi dal mondo, per dimenticare, per non essere costretta a condividere. E che una chiamata da Trieste la costringe a ripercorrere, perché dal passato non si può scappare in eterno, è parte di noi, ci ha forgiato, ci ha resi quello che siamo e non possiamo fingere che non sia esistito. E forse fare i conti con lui può essere liberatorio.

"È che a volte si viene chiamati", si dice Francesca, "e non si può dire di no". (p. 14)

Fin dalle prime pagine il lettore è coinvolto nella vicenda, sa che c'è un fatto brutto, terrificante, qualcosa che è accaduto tanto tempo prima e non ha mai smesso di avvelenare le vite di troppe persone. Ma il lettore si metta l'animo in pace, non lo scoprirà tanto presto. L'autrice, con abilità, gira intorno all'accaduto, risveglia ricordi in anziani, mezze frasi, piccole rivelazioni, mentre chi legge vorrebbe sapere di più, mettersi sullo stesso piano di Francesca che sa e invece è costretto a stare con Mirko, a cercare di capire, di decifrare il rebus, giostrandosi tra gli avvenimenti, così densi e febbrili che sconvolsero Trieste e l'Istria di quel periodo. Il tempo del disvelamento procede lento (a tal punto che, a volte, riprendendo la lettura, sembra sempre di ritrovarsi allo stesso punto), ma inesorabile. Il romanzo è costruito con gli stilemi del giallo, un giallo storico che trova la sua ambientazione in quegli anni non così lontani, che hanno inciso così tanto sulla città di Trieste.
La protagonista della storia è lei Francesca, donna solo apparentemente fredda e distaccata, in realtà soltanto in difesa costante del suo equilibrio, così faticosamente raggiunto. Assistiamo agli attacchi, garbati, di Mirko che, interpretando le parole del nonno come un viatico, cerca di fare uscire da lei quel segreto, così pervicacemente trattenuto. Ed è una partita a scacchi, dove a ogni mossa corrisponde la contromossa. Soltanto ben oltre la metà del libro il lettore, che forse inizialmente fatica un po'  a districarsi tra partigiani, nazisti, ex titini, delatori, comincerà a essere instradato verso un certo scenario il cui finale comunque lo sorprenderà. La storia si dipana su due piani temporali distanti, lei e Mirko sono i protagonisti del presente. Bruno, Vasco e Liliana, la donna che tanta parte ebbe, sono i personaggi della storia seconda, che poi in realtà è la prima. A fare da anello, come abbiamo detto, gli anziani con le loro fragilità, i loro ricordi, la loro vita ormai alle spalle.
Per il suo romanzo d'esordio (menzione al Premio Calvino) Cristina Gregorin ha scelto di dare voce ai fantasmi della sua città, a quegli avvenimenti che ancora turbano i ricordi dei sopravvissuti, che sono sempre meno, accadimenti con i quali la storia della città stessa (tornata definitivamente italiana soltanto nel 1954, è bene ricordarlo) ancora deve finire di fare i conti. E l'ha fatto tenendo sempre la barra dritta secondo un'interpretazione antifascista della narrazione storica, non ci sono indulgenze o tentativi di dare risposte nuove o diverse. E così "L'ultima testimone" può senz'altro diventare un tassello di quel percorso che, nel passaggio dalla storia alla narrativa, si fa memoria condivisa.

Sabrina Miglio