Non mi piacciono i film di Anna Magnani.
Il caso Wilma Montesi
di Mario Pacelli
Graphofeel Edizioni, 2019
pp. 168
€ 15,00 (cartaceo)
€ 7,00 (ebook)
Il cigno nero, il musico, il poliziotto, l’investigatore, il giudice, l’avvocato, il marchese, il giornalista, l’attrice, l’avellinese, il ministro, il presidente, il questore, il capo della polizia, il notabile. Sembrerebbero le dramatis personae di una pièce teatrale o di un lungometraggio, e invece questi appellativi corrispondono alle professioni dei principali personaggi di un fatto di cronaca nera che quasi settant’anni fa scosse la coscienza sociale, culturale e politica italiana. Un caso, peraltro, a cui l’ambiente dello spettacolo non risultava del tutto estraneo, dal momento che la sua “protagonista” Wilma Montesi – nel ruolo infausto della vittima – aveva ambizioni attoriali, frequentava Cinecittà e dimostrava una certa indipendenza quanto a modelli di recitazione, se è vero che la gloria nazionale Anna Magnani non era la sua diva di riferimento. Chissà: forse, se l’avesse apprezzata almeno un po’, quel 9 aprile del 1953 sarebbe andata al cinema a vedere La carrozza d’oro, in cui recitava diretta dal maestro Jean Renoir, mancando l’appuntamento con il destino ben più tragico che un paio di giorni dopo ne avrebbe fatto ritrovare il cadavere sulla spiaggia di Torvajanica. Certo è che con la sua morte la ventunenne romana ha consegnato all’Italia il suo ennesimo e non svelato mistero, che da allora non ha smesso di alimentare il fuoco profano della carta stampata, dell’editoria e della stessa settima arte (ben cinquantadue soggetti cinematografici sul caso Montesi vennero depositati mentre le indagini sul decesso erano ancora in corso). Un libro di Mario Pacelli, appena pubblicato da Graphofeel, aiuta a orientarsi tra le poche luci e le molte ombre di una vicenda che vale la pena conoscere e ricordare, specchio perfetto di un Paese che non ha smarrito la sua vocazione al mistero.
Il caso Wilma Montesi
di Mario Pacelli
Graphofeel Edizioni, 2019
pp. 168
€ 15,00 (cartaceo)
€ 7,00 (ebook)
Il cigno nero, il musico, il poliziotto, l’investigatore, il giudice, l’avvocato, il marchese, il giornalista, l’attrice, l’avellinese, il ministro, il presidente, il questore, il capo della polizia, il notabile. Sembrerebbero le dramatis personae di una pièce teatrale o di un lungometraggio, e invece questi appellativi corrispondono alle professioni dei principali personaggi di un fatto di cronaca nera che quasi settant’anni fa scosse la coscienza sociale, culturale e politica italiana. Un caso, peraltro, a cui l’ambiente dello spettacolo non risultava del tutto estraneo, dal momento che la sua “protagonista” Wilma Montesi – nel ruolo infausto della vittima – aveva ambizioni attoriali, frequentava Cinecittà e dimostrava una certa indipendenza quanto a modelli di recitazione, se è vero che la gloria nazionale Anna Magnani non era la sua diva di riferimento. Chissà: forse, se l’avesse apprezzata almeno un po’, quel 9 aprile del 1953 sarebbe andata al cinema a vedere La carrozza d’oro, in cui recitava diretta dal maestro Jean Renoir, mancando l’appuntamento con il destino ben più tragico che un paio di giorni dopo ne avrebbe fatto ritrovare il cadavere sulla spiaggia di Torvajanica. Certo è che con la sua morte la ventunenne romana ha consegnato all’Italia il suo ennesimo e non svelato mistero, che da allora non ha smesso di alimentare il fuoco profano della carta stampata, dell’editoria e della stessa settima arte (ben cinquantadue soggetti cinematografici sul caso Montesi vennero depositati mentre le indagini sul decesso erano ancora in corso). Un libro di Mario Pacelli, appena pubblicato da Graphofeel, aiuta a orientarsi tra le poche luci e le molte ombre di una vicenda che vale la pena conoscere e ricordare, specchio perfetto di un Paese che non ha smarrito la sua vocazione al mistero.
Docente di Istituzioni di diritto pubblico, autore di numerosi saggi di storia parlamentare nonché Funzionario di lungo corso della Camera dei deputati con esperienza delle Commissioni bicamerali d’inchiesta e dell’Archivio storico, Mario Pacelli ha scelto per il suo lavoro un titolo a tutti gli effetti parlante: non solo perché quel Non mi piacciono i film di Anna Magnani suona come una plausibile e sprezzante dichiarazione fatta da una sfortunata ragazza alla ricerca del proprio posto nel mondo (e che nel frattempo abitava con i genitori e una sorella di nome Wanda in un grande caseggiato di via Tagliamento 76 al quartiere Pinciano), ma anche perché mettere l’accento sul cinema, e dunque sul mondo di finzioni pur sempre ispirate alle realtà, serve già a connotare tutta la faccenda di quel carattere ambiguo, torbido e promiscuo che non risparmierà nessuna delle persone coinvolte e che finirà con il contagiare l’intero “stivale”. Mentre la dedica personale, invece, con il suo omaggio alla memoria di Emiliano Frattarelli – «cronista del quotidiano “Il Paese” all’epoca del caso Montesi e poi decano dei giornalisti parlamentari, che mi raccontò più di quarant’anni anni fa a Montecitorio come aveva visto svolgersi i fatti» – è un richiamo evidente a una verità necessaria e non ancora rivelata.
Incredibile ma vero, il decesso di un’ambiziosa fanciulla in fiore ritrovata sul litorale laziale non fu l’acme drammatico di una brutta storia di cronaca, ma una vera e propria cartina di tornasole delle inquietudini di un’Italia ancora alle prese con i postumi del periodo bellico da poco trascorso, e che, nel suo desiderio di rinascere dalle ceneri di una guerra (anche civile) che aveva ridotto in polvere corpi e coscienze, non mancava di confondere e compromettere in malo modo gli ambienti dello spettacolo, del governo, della criminalità e della giustizia:
«il caso di Wilma Montesi esplose come una bomba in una società come quella italiana del tempo, che sembrava avere finalmente avviato il percorso verso un nuovo mondo felice, tutto rose e fiori: si preparavano gli anni del boom, del miracolo economico, che poi tale non era ma solo l’uscita dal tunnel delle miserie della guerra, delle difficili condizioni di vita nelle campagne e nelle periferie delle grandi città, da una povertà spesso atavica» (p. 36).
Altro che tragico incidente – a tutta prima si parlò di “pediluvio fatale ” – o delitto passionale: a poco a poco vennero chiamate in causa (e spesso ci si chiamarono da sé) figure di spicco della politica, della Roma “borgatara” e della cosiddetta “Roma bene”, in un affresco confuso in cui le condizioni esistenziali esemplificate proprio da un film con Anna Magnani come L’onorevole Angelina (1947) si confondevano con quelle descritte da Federico Fellini nel suo La dolce vita (1960). Mario Pacelli descrive questo scenario punto per punto, a vantaggio di un ipotetico lettore che sia all’oscuro di tutto e che sembra coincidere con le cosiddette nuove generazioni in età scolare, ovvero quei “duemila” che in base ai programmi ministeriali ancora non affrontano il Novecento e in particolare la sua seconda metà con il necessario approfondimento. Perché quello del 1953 fu un caso importante, che per clamore mediatico, carica simbolica e dinamiche incerte l’autore non esita a paragonare alla vicenda di Emanuela Orlandi, scomparsa nella capitale nel 1983 – «emergono alcune sconcertanti analogie (…) depistaggi, interventi di centri di potere occulti per oscurare le verità, personaggi che compaiono per poi scomparire nell’ombra» (p. 20) – e a quella, ben nota e ben studiata sui libri di storia, dell’affaire Dreyfus:
«in Francia alla radice dell’affaire Dreyfus ci fu l’antisemitismo; in Italia, a far nascere il “caso Montesi” fu lo smarrimento sociale, la confusione morale, la perdita di qualunque valore di riferimento che non fosse combattere e vincere la battaglia del “tutti contro tutti” per avere finalmente una “dolce vita”» (p. 18).
Impossibile in sede di recensione riassumere in poche battute l’evolversi degli avvenimenti investigativi e processuali che portarono all’assoluzione di tutti i potenziali indiziati e presunti colpevoli, concludendosi in un nulla di fatto che ancora non soddisfa la ragione e il buon senso di coloro che negli anni hanno analizzato le molte carte e le altrettante pubblicazioni relative al caso. E se Mario Pacelli è bravo nel mettere in fila gli eventi, gli attori e gli astanti di un mondo apparentemente senza redenzione – un mondo in cui il sesso è arma di ricatto personale e politico, un mondo in cui droga e prostituzione sono la ciliegina sulla torta di una corruzione che è delle anime ancora prima che dei corpi, un mondo che a tratti sembra popolato da una congerie indistinta e disgraziata di “nani e ballerine” – c’è un punto su cui la sua trattazione si ritrova a insistere, ovvero il ruolo giocatovi dalla carta stampata:
«fu proprio in occasione del caso Montesi che l’informazione giornalistica, talora debitamente strumentalizzata, dimostrò di essere veramente quel Quarto potere di cui parlava Orson Welles nel suo celebre film: il caso nacque da quanto pubblicato da una rivista, fu alimentato da dichiarazioni rese da questo o quel protagonista delle vicende e utilizzato per aumentare le tirature con la pubblicazione di memoriali scritti da personaggi di secondo piano, che pure condizionarono talora pesantemente lo svolgimento delle indagini» (p. 19).
Il libro di Mario Pacelli piacerà agli appassionati di cronaca nera, casi irrisolti e segreti giudiziari, e ovviamente a tutti coloro che hanno solo orecchiato qualcosa della vicenda in esame e desiderano farsi un’idea generale e ragionata di come si svolsero gli eventi; tanto più che l’autore propone in coda una bibliografia essenziale di riferimento, utile soprattutto per approfondire le implicazioni politiche, sociali e culturali dell’intera questione. A fine lettura si confermano dunque le intenzioni espresse dall’autore nella sua Introduzione, quando così riassume lo scopo del lavoro:
«le pagine seguenti aspirano a fornire tutti gli elementi disponibili non già per dare risposta a un quesito ormai destinato a restare tra i misteri della storia d’Italia, ma affinché si possa avere idea di quanto avviene in un Paese quando la società è dominata da un malessere diffuso che condiziona la stabilità della convivenza, rendendola simile a un castello di carte che finisce per crollare a causa della sua stessa fragilità. Nessuno è fuori da questa logica» (p. 20).
Del resto, se la morte di Wilma Montesi continua a fare tanto rumore è perché evidentemente non è ancora stata detta e scritta l’ultima parola in proposito, come se i titoli di coda di questo “film” – un film violento e ibrido, con elementi drammatici, spionistici e farseschi in parti uguali – non si fossero conclusi con la dicitura The End tipica dei lungometraggi, ma con il To Be Continued che caratterizza le strutture a episodi. Il volume pubblicato da Graphofeel aiuta a non perdersi tra le pagine di una sceneggiatura fin troppo ricca di personaggi ma alla quale sembrano mancare tanti fogli, e non di meno a ricordare la sorte infelice di una ragazza degli anni Cinquanta a cui non piaceva la Nannarella nazionale, cittadina di un Paese che anche con il suo caso confermava una ricorrente vocazione al mistero; una vocazione, forse, un po’ troppo di comodo, a cui avrebbe giovato e ancora gioverebbe un po’ più di perseveranza:
«la morte di Wilma Montesi è divenuta così uno dei grandi misteri italiani, dalla tragedia di Ustica alla morte del bandito Salvatore Giuliano, dall’uccisione di Aldo Moro alla strage della stazione di Bologna… e via di seguito. In fondo, al punto in cui si era giunti, sarebbe bastato ancora poco per risolverlo. Fra i protagonisti principali chi conosceva chi già da più di dieci anni? Perché? Tutte domande di cui, se sono state poste, è restata quanto meno in ombra la risposta. Forse sarebbe il caso di farci un pensierino: la “Roma in camicia nera”, con i suoi usi e costumi, ancora oggi può essere di qualche interesse. È stato necessario più di un secolo e mezzo per individuare in Francesco Crispi, Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1887 ala 1896 con una breve interruzione, il terzo fra gli autori dell’attentato contro Napoleone III… Bisogna solo avere pazienza!» (p. 143).
Cecilia Mariani
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