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L’Italia transculturale (che c’è già) nei racconti di Elvis Malaj

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Dal tuo terrazzo si vede casa mia
di Elvis Malaj 
Racconti edizioni, 2017 

pp. 164 

€ 14 (cartaceo) 
€ 5,99 (ebook) 


Dal tuo terrazzo si vede casa mia è giunto alla seconda ristampa. Ed è la seconda bella notizia a proposito di questo libro. La prima è arrivata quando il titolo è entrato nei dodici finalisti del premio Strega di quest’anno (che, come si sa, non ha vinto, ma è un peccato che non sia entrato almeno nella rosa degli ultimi cinque). Sono due sorprese che fanno felici perché Dal tuo terrazzo si vede casa mia è un esordio valido, interessante e singolare. È una raccolta di racconti, genere che di solito non arriva alle finali dei premi letterari, ancor meno se la casa editrice non fa parte di nessuno dei grandi gruppi editoriali italiani (a proposito, nonostante ciò Racconti edizioni è riuscita a ottenere i diritti d’autore per pubblicare Fantasie di stupro di Margaret Atwood). L’autore, Elvis Malaj, è un giovane albanese che vive in Italia da quando aveva quindici anni, lavora qui e scrive in italiano. La candidatura del suo libro al premio Strega l’ha proposta Luca Formenton, che nella motivazione ha scritto: «Trovo salutare che in un paese in cui la legge sullo ius soli è rimasta impantanata nelle secche delle camere, i nuovi scrittori italiani non facciano più di cognome solo Rossi o Bianchi, ma Malaj, Scego, Brahimi, Vorpsi, Lakhous». Alla fine lo Strega l’ha vinto una scrittrice che di cognome fa Janeczek. E c’è da esserne contenti, in primis perché sia in quel caso che in questo di Malaj si parla di due bei libri – e ça va sans dire che se così non fosse non staremo qui a discuterne – e poi perché sì, è salutare che quantomeno la nostra letteratura e l’immaginario che lì viene rappresentato riescano a essere specchio del paese più coerentemente di quanto non lo facciano le nostre istituzioni.


L’immaginario di riferimento del libro di Malaj è quello di una specifica condizione di soglia culturale e linguistica. Di un dialogo - o quantomeno una proposta di dialogo - presente fin dal titolo, con quel terrazzo da cui se ne vede un altro. Un dialogo tra i personaggi dei racconti (in quasi tutti ci sono due protagonisti), tra l’Italia e l’Albania, e tra gli stereotipi che le narrazioni nazionalistiche delle due portano con sé. 
Kastriot era ubriaco e aveva fatto a botte: aveva semplicemente fatto quello che ci si aspettava da un albanese a una festa, anche se non era ubriaco, neanche beveva lui, ma era ciò che pensavano tutti in quel momento. 
L’albanese ubriaco, l’albanese che picchia, l’albanese che ruba: così ad esempio nell’ultimo racconto il cui protagonista Kastriot si ritrova suo malgrado in una rissa. Ma, appunto, questi sono stereotipi e Malaj li mostra solo per rivelare la realtà di un’Italia molto più fluida, in cui il vivere a cavallo tra più lingue e più culture contemporaneamente è un'esperienza naturale e spesso integrata nella società. Molti dei personaggi dei racconti sono ragazzi e ragazze di origine albanese che studiano o lavorano in Italia, hanno partner italiani, hanno amici italiani che scherzano con loro dicendo che vorrebbero essere albanesi, in modo da poter pretendere di fare i bruti con chi dà loro fastidio. Insomma personaggi che deridono gli stereotipi, e così li smontano. Insomma l’Italia transculturale che già c’è, anche se molti non la vedono.

Malaj ci racconta di questa Italia con grande ironia, con un effetto tragicomico che forse a volte è quasi troppo ricercato – sfiora il grottesco – ma che generalmente non stona, con uno stile controllato, molto maturo per essere un’opera prima. Uno stile che rivela le vaste letture dell’autore: Alda Merini, Herman Hesse – i modelli dichiarati nella raccolta – e probabilmente anche Stefano Benni e Niccolò Ammaniti, tra i tanti altri.

Le dodici storie della raccolta non sempre hanno uno scioglimento, così come le relazioni tra i personaggi, che spesso rimangono disgraziatamente irrisolte. E neanche la stessa lingua ha uno scioglimento. Perché Malaj sceglie di inserire l’albanese nel testo, qui e lì, ma non lo traduce, seguendo così una scelta che già da anni è sempre più comune nella letteratura postcoloniale italiana: il lettore vive il bilinguismo degli altri, non stacca gli occhi per andare a un glossario a fine libro o alle note a piè di pagina, è costretto a confrontarsi con una lingua che non sa, alla scomodità dell’incomprensione.

Nonostante la convergenza tra lo status biografico e culturale dello scrittore e quello dei suoi personaggi, i racconti del volume non sono autobiografici, o almeno lo solo sono in parte probabilmente. L’autore fa capolino in apertura al volume, che dedica a Veronica (“che non è vero che è stronza”), e scrive il racconto iniziale in prima persona, l’unico. Poi torna alla fine, e non solo perché torna anche la stronza Veronica, ma soprattutto perché l’ultimo racconto – il più lungo – è una firma all’intera raccolta. Malaj scrive di uno scrittore che cerca un modo per far morire il suo personaggio, un racconto metaletterario, in cui i protagonisti che hanno i balconi opposti – l’albanese e l’italiana – si riconoscono nella comune lettura di Merini e di Dostoevskij. La letteratura, nel libro di Malaj, sconfigge i pregiudizi su più livelli.

Nella pagina dedicata a Dal tuo terrazzo si vede casa mia sul sito di Racconti edizioni, Paolo Zardi spera che quello di Malaj non sia un caso isolato. Fortunatamente non lo è: la “letteratura piena di contaminazioni” che Zardi si augura c’è già, e molti la studiano pure (all’estero prevalentemente). Quello che ci si deve augurare è che sempre più case editrici italiane inizino ad accorgersene.

Serena Alessi
@serealessi