«Dove siamo, Simone?».«In un sogno, siamo in un sogno».«Di chi?».«Nel mio». (pp. 56-57)
L’esordio di Oblio mucido chiarisce fin da subito il campo d’azione del romanzo: uno spazio mentale instabile, in cui non esiste una realtà comune e l’esperienza assume forma diversa a seconda di chi la percepisce. Il dialogo qui riportato non introduce soltanto una scena, ma definisce una postura narrativa che attraversa l’intero testo, fondata sullo slittamento continuo tra ciò che accade e ciò che viene immaginato.
Il romanzo ruota attorno a tre figure centrali – Simone, Matteo, Enrico – che si muovono in una zona di confine tra realtà e finzione, tra relazioni distruttive e il desiderio di una pace che resta utopica. I personaggi abitano un mondo che muta insieme al loro assetto interiore, senza mai stabilizzarsi. Salvati costruisce questi spazi come l’Architetto di Inception: li concepisce, li sforma e li ricompone in tempo reale, adattandoli allo stato mentale dei personaggi; pareti, palazzi e città non funzionano come semplici ambientazioni, ma come superfici mobili, soggette a continue deformazioni.
All’interno di questa architettura gassosa, la muffa assume un ruolo strutturale. Non è solo un elemento atmosferico o simbolico, ma il muro di cinta della finzione, la materia stessa del sogno, capace di ramificarsi e invadere ogni spazio, poiché «si spingono in profondità, nei corridoi sempre più umidi» (p. 73). La moltiplicazione delle ife richiama una mente che procede per diramazioni, piuttosto che per sviluppo lineare.
In questo contesto si colloca una delle affermazioni-chiave del romanzo:
«La verità è una corda in cui si inciampa». (p. 10)
La verità non viene mai proposta come soluzione, ma come ostacolo, qualcosa che mette in crisi le certezze su cui i personaggi tentano di orientarsi. Passato e presente si mescolano senza soluzione di continuità; spesso risulta impossibile distinguere l’esperienza vissuta dal mondo che esiste solo nella mente e non è mai accaduto.
La scrittura di Salvati accompagna questo disorientamento con un registro allucinatorio e, a tratti, anatomico e settoriale, che richiama un lessico psichiatrico senza mai trasformarsi in spiegazione. Le scene si susseguono secondo una logica più emotiva che cronologica, con passaggi improvvisi da un contesto all’altro. L’effetto complessivo rimanda a una regia che accetta la discontinuità come principio, simile a quella de I sogni segreti di Walter Mitty, dove un attimo prima si è su un letto d’ospedale e quello dopo su un treno o immersi in un lago ghiacciato, senza che il passaggio venga segnalato o giustificato. Leggere Salvati è anche come trovarsi seduti sul divano della Loggia Nera di Twin Peaks: lo spazio perde coerenza, gli oggetti spariscono, le domande restano sospese e spesso non vengono comprese nemmeno da chi le formula. Presenze inattese occupano le stanze, i ruoli si confondono, le immagini sembrano seguire una logica propria, come nella scena in cui «Stesa a letto, al suo fianco Elena è un'immobile statua neoclassica. C'è qualcun altro di fronte a lui. Una donna, su una poltrona Liberty dalla tinta lilla» (p. 77). Episodi simili incrinano costantemente il piano del reale, lasciando personaggi e lettore in uno stato di instabilità percettiva.
Sullo sfondo, Oblio mucido affronta anche il tema del lavoro nell’ambito dell’assistenza psichiatrica. Assistenti sociali, psichiatri, educatori attraversano il testo come figure esposte a un logoramento silenzioso. Il confine tra vita privata e professionale si assottiglia fino a scomparire, e il lavoro diventa un ulteriore luogo di smarrimento:
«Matteo non dice nulla. Quand'è l'ultima volta che sono tornato a casa?». (p. 49)
Il romanzo riflette infine sulla finzione come pratica diffusa e necessaria alla sopravvivenza, in quanto «il mondo è diventato fiction, sono crollate le barriere tra il vero e il falso» (p. 98). Fingere non appare come una colpa individuale, ma come una competenza acquisita. In questo scenario, ogni possibilità di cambiamento rimane incerta e passa attraverso un processo interiore che non assolve né redime, ma prende atto di una condizione condivisa, poiché «ognuno di noi porta una pena addosso, a prescindere dai propri errori» (p. 116).
Oblio mucido si chiude senza sciogliere del tutto le proprie tensioni, lasciando che l’idea di un esito rimanga sospesa.
«Alla fine, si è sistemato tutto. Il destino per realizzarsi ha bisogno di tempo, pazienza. Non trovi?». (p. 88)
Una frase che non chiarisce, ma rilancia, coerente con un romanzo che fa dell’instabilità il proprio principio costruttivo.
Leonardo
D’Isanto
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