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Pillole d'autore - Jules Verne, "Parigi nel XX secolo"

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Nel 1863, Jules Verne ha trentacinque anni e sta per realizzare il sogno di una vita: pubblicare il suo primo romanzo e vivere di scrittura, abbandonando per sempre la noiosa ancorché proficua carriera in Borsa che l'aveva mantenuto fino ad allora. Cinque settimane in pallone, uscito proprio quell'anno, rivelerà al pubblico il talento di uno scrittore in grado di mescolare in perfetto equilibrio chimico rocambolesche avventure e divulgazione scientifica, geografica e storica. Proprio ciò che l'editore Pierre-Jules Hetzel stava cercando da anni.

Ora che finalmente aveva trovato l'uomo giusto, Hetzel non aveva alcuna intenzione di lasciarselo scappare. Fece subito firmare a Verne un contratto con cui vincolava lo scrittore a fornirgli periodicamente romanzi d'avventura per il suo Magasin d'éducation et de récréation. La collaborazione, che inizialmente doveva durare vent'anni, in realtà avrebbe impegnato Verne fino alla fine dei suoi giorni, dando vita a una collezione di oltre sessanta titoli, tutti coronati da un enorme successo editoriale e riuniti sotto un unico, appropriatissimo nome: Viaggi straordinari. Tutti, tranne uno.

Il secondo romanzo proposto da Verne al suo nuovo editore, subito dopo la pubblicazione di Cinque settimane in pallone, è in effetti, be', un po' troppo straordinario. Si intitola Parigi nel XX secolo ed era farcito di idee talmente bislacche, visionarie, inverosimili e pessimistiche che Hetzel, per salvaguardare la carriera di quel giovane e promettente scrittore, pensa bene di respingerlo al mittente accompagnandolo con alcune osservazioni. E un consiglio. "Aspettate vent'anni. Oggi nessuno crederà mai alle vostre profezie", scrisse l'editore a Verne rispedendogli il manoscritto.

Non si può dire che il vecchio Hetzel avesse tutti i torti. Una società che si preparava a vivere in pieno il boom della seconda rivoluzione industriale non avrebbe certo visto di buon occhio il profilarsi di scenari apocalittici come quelli immaginati da Verne nel suo romanzo. Parigi nel XX secolo, spingendo a risultati allora inimmaginabili le promesse della tecnologia contemporanea, prefigurava un futuro in cui la vita era enormemente facilitata in ogni suo aspetto pratico, la popolazione godeva di una prosperità mai raggiunta prima, le guerre erano debellate: ma anche un mondo in cui la spiritualità era morta, la letteratura esiliata dalle librerie e ridotta a culto clandestino di pochi nostalgici, la musica evoluta in una cacofonia anarchica di rumori casuali. Con il suo progresso inarrestabile, la scienza ha generato comodità e prosperità, ma non felicità. Gli uomini non hanno molta più emotività delle macchine che governano la loro esistenza quotidiana.

Nel 1960, Parigi è diventata una gigantesca metropoli industriale e finanziaria percorsa da velocissimi treni metropolitani a propulsione magnetica, illuminata costantemente dalla luce elettrica, collegata al mare da un colossale canale navigabile e dominata da un unico obiettivo: il denaro. Banche e istituti di credito hanno preso il posto perfino del teatro dell'Opéra. Negli uffici, imponenti calcolatori elettronici elaborano in pochi secondi operazioni complicatissime. Esiste persino una rete di comunicazione globale creata per trasmettere ovunque dati e documenti in un istante, agevolare le comunicazioni d'affari e connettere tutto il mondo.

In un mondo del genere il giovane Michel Dufresnoy, raffinato poeta in versi latini e prototipo del romantico idealista, è la persona sbagliata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Michel è uno studioso la cui massima ambizione è dedicare la propria vita alla letteratura; come potrebbe trovarsi a suo agio in una realtà arida e claustrofobica in cui i Grandi del passato sono stati dimenticati e l'industria si è impadronita persino dell'arte della poesia? Nelle librerie i nomi di Hugo, Balzac, Lamartine sono ormai sconosciuti. Sdilinquimenti sdilinquimenti sentimentali, paesaggi bucolici e frivolo intimismo hanno ceduto il posto a versi che esaltino i trionfi della tecnologia e delle macchine, le conquiste della scienza.

"Ma, signore... se voleste qualche opera letteraria contemporana... Abbiamo opere che hanno fatto un certo scalpore in questi ultimi anni; non si sono vendute male per dei libri di poesia..."
"Ah!" Fece Michel allettato, "avete poesie moderne?"
"Certamente. E, tra l'altro, le Armonie elettriche di Martillac, opera insignita dall'Accademia delle Scienze, le Meditazioni sull'ossigeno del signor de Pulfasse, il Parallelogramma poetico, le Odi decarbonate ecc."
Michel non era riuscito ad ascoltarne di più, e si ritrovava per strada, costernato, stupefatto! Quel poco d'arte non era dunque sfuggito all'influenza perniciosa del tempo! La scienza, la chimica, la meccanica facevano irruzione nel regno della poesia!"

Poco dopo lo stesso Verne ci dà un assaggio di quella nuova poesia, con un componimento che sembra quasi ispirato all'ode All'automobile da corsa di Marinetti; non fosse che Marinetti l'avrebbe scritta solo cinquant'anni dopo:

Il carbone porta allora la sua fiamma incendiaria
Nei tubi ardenti dell'enorme caldaia!
Il mostro surriscaldato non teme rivali!
La macchina ruggisce sotto la sua tremante apparenza,
E, sprigionando vapore, sviluppa una forza
di ottanta cavalli.
Ma dalla sua pesante leva il fuochista costringe
I cassetti ad aprirsi, e nello spesso cilindro,
Rapido e gemente, corre il doppio pistone!
La ruota slitta! La velocità si avvia!
Il fischio parte!... Salve! Locomotiva
del sistema Crampton!

Ma se i poeti piangono, i giornalisti non ridono. La politica è un lontano ricordo, i partiti non si distinguono più tra loro, nessuno va a più votare, le cariche di deputati e senatori si trasmettono di padre in figlio per via ereditaria, i giornali non hanno più nulla di cui scrivere. E comunque nessuno li leggerebbe più.

"Il giornalismo ha fatto il suo tempo."
"Sì!... e non ricomincerà più; cent'anni fa ne avevano abusato, e oggi ne paghiamo lo scotto; a quell'epoca si leggeva poco, ma tutti scrivevano; nel 1900, i giornali francesi, politici e non, illustrati e non, raggiungevano la cifra di sessantamila... Ebbene, tutto questo gran furore di giornali ha presto condotto alla morte del giornalismo, per la semplice e incontestabile ragione che gli scrittori erano diventati più dei lettori!"

Con il giornalismo è morta poi anche ogni forma di critica: in particolare, in ambito culturale, si dà l'addio all'arte della stroncatura, soffocata niente meno che da un'ingegnosa applicazione di una norma del Codice penale:

"Poiché ogni persona nominata in un articolo aveva il diritto di rispondere nella stessa sede con un uguale numero di righe, gli autori di opere teatrali, di romanzi, di libri di filosofia e di storia cominciarono a replicare in massa ai loro critici; ciascuno aveva diritto a un tanto di parole, ed esercitava questo diritto; sulle prime i giornali pretesero di opporre resistenza, da qui un mucchio di processi; furono condannati; allora, per far fronte ai reclami, ingrandirono il loro formato; ci si misero di mezzo gli inventori di non so che macchina; non si riuscì a parlare più di niente senza provocare una risposta da inserire; se ne abusò al punto che, a conti fatti, la critica fu sterminata sul posto. Con essa scomparve quell'ultima risorsa del giornalismo."

Per non parlare del teatro. Venuta meno ogni esigenza di ispirazione individuale, nel futuro l'intrattenimento teatrale è diventato anch'esso un'attività industriale, serializzata e strutturata in catene di montaggio che producono, montano e riassemblano ogni episodio dei drammi secondo modelli preconfezionati. L'istituto in cui si fabbricano tutti i nuovi drammi si chiama Grande Emporio Drammatico:

I cinquanta teatri della Capitale vi si rifornivano di opere di ogni genere; alcune erano confezionate in anticipo; altre si facevano su ordinazione questa tagliata su misura per un certo attore, quell'altra in un certo ordine di idee [...] tutto ora avveniva con ordine, come si conviene a persone civili... non c'era più traccia di quei poeti bohémiens, di quei geni miserabili che sembravano protestare eternamente contro l'ordine delle cose; ci si poteva forse lamentare di un'organizzazione che uccideva la personalità della gente e forniva al pubblico la quantità di letteratura necessaria ai suoi bisogni?

Insomma, cosa resta, in un mondo del genere, al povero Michel? Nulla. Cacciato dal lavoro, rinnegato dalla famiglia e abbandonato da tutti, Michel scenderà tutti i gradini della disillusione e del fallimento, rifiutando di adeguarsi a una modernità senz'anima e precipitando nell'inesorabile conclusione della sua vita.

Purtroppo, malgrado la potenza della visione di Verne, che nel 1863 raccontava un futuro così simile al nostro presente da renderne sconsigliabile la pubblicazione per "eccesso di profezia", Parigi nel XX secolo sembra più la versione annacquata di un conte philosophique voltairiano. Quasi privo di trama, incastrato intorno alla figura di un protagonista macchiettistico e inverosimile nella sua assoluta inadeguatezza a un mondo di cui mostra di non conoscere pressoché nulla pur essendoci nato, prolisso e retorico allo sfinimento, il romanzo più futuristico di Verne resta lontano anni luce, come qualità e interesse intrinseco, persino dagli esiti più trascurabili della sua vastissima produzione.

Dunque forse fece bene, Verne, ad ascoltare il consiglio del suo editore. Abbandonò l'idea e non la riprese mai più. Alla sua morte, il figlio Michel ereditò tutto, beni e carte, ma perse la chiave della cassaforte in cui il padre aveva riposto il manoscritto. Di Parigi nel XX secolo restavano solo un paio di accenni qua e là, in elenchi di opere e citazioni biografiche; con il passare dei decenni, eredi e studiosi si sarebbero rassegnati a considerarlo perduto per sempre. Finché, nel 1989, la cassaforte che tutti ritenevano vuota è stata aperta e il romanzo perduto è tornato a riveder le stelle.

Il romanzo più fantascientico di Verne si ricongiungeva così con un futuro che aveva provato a descrivere oltre cent'anni prima, ritrovandolo non troppo diverso da come se l'era immaginato, forse un po' meno apocalittico. Per ora.


(Edizione di riferimento: Jules Verne, Parigi nel XX secolo, cura e traduzione di Maurizio Grasso, prima edizione integrale, Roma, Newton Compton, 1995)