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L'Antico Testamento secondo Erri De Luca

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Nocciolo d'oliva
Erri De Luca
Edizioni Messaggero Padova

pp. 128
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Da lettore assiduo di scrittura sacra frequento l'ebraico antico delle prime storie, dei profeti, dei salmi raccolti nell'Antico Testamento. L'usanza quotidiana non ha fatto di me un credente. La mia esperienza di lettore accampato fuori dalle mura dipende, per me, da due inciampi.

Erri De Luca, ateo dichiarato, si misura ancora una volta con le scritture sacre della religione cristiana e con il libro Nocciolo d'oliva dona ai lettori le sue traduzioni dall'ebraico antico dell'Antico Testamento e le sue interpretazioni. Nonostante dichiari di leggere un passo religioso tutte le mattine, ribadisce di non essere credente esplicitamente per due motivi: uno è la preghiera, il secondo “inciampo” è il perdono. De Luca asserisce di avere grosse difficoltà a rivolgersi “a lui”, a pregare per ottenere qualcosa, non lo sa fare ma comprende chiunque lo faccia, compresi i colleghi volontari che per cinque anni lo hanno portato con loro in Bosnia come autista. Ecco, loro si aggrappano alla preghiera e alla confidenza divina dettata dal “tu” dato a Dio. Poi c'è il perdono: “non sa perdonare e non può ammettere di essere perdonato”, scrive. Rimangono le sue pagine, pregne di rispetto e di curiosità nei riguardi di una forza e di una scrittura che esercita fascino persino in uno come Erri, in un non credente. 
Il primo è la preghiera, questa potenza e possibilità del credente di rivolgersi. Dare il “tu” a Dio, con le variazioni che stanno tra l'imprecazione e la supplica, è l'arbitro meraviglioso della creatura che risale alla sua origine e l'interroga, la chiama, la scuote dalla sua distanza. Chi ha esclamato per la prima volta la prima preghiera non può averla inventata.
[…] Non lo so fare, non so rivolgermi. Forse uno come me si accanisce nella scrittura proprio perché non sa rivolgersi nemmeno agli altri e riduce lo scambio a questo crampo della mano, al saliscendi di una penna che traccia lettere su un foglio. Fingo che sia la mia voce, l'impulso di suscitare un sorriso, un'intesa, un affetto. Non so rivolgermi, non so il pronome della preghiera. Pratico il surrogato “tu” della scrittura.
Parlo di Dio in terza persona, leggo di lui, sento parlare di lui e sento vivere altri di lui (chiedo di lasciarmi il carattere minuscolo di “lui”. Chi non crede non ha il diritto di usare la maiuscola).

Il primo passo che analizza è l'avvento. La nascita del bambino e la ricerca da parte di Giuseppe di un luogo in cui poter far partorire Maria rappresenta per De Luca il punto di partenza da comparare ai tempi moderni, tempi in cui una donna in stato avanzato di gravidanza può trovarsi nel bel mezzo del mare in una barca, insieme ad altri stranieri. E analizza anche la figura di madre. Le donne conoscono bene lil verbo aspettare, lo conoscono anche in termini fisici con l'attesa di un bambino, mentre all'uomo non è concesso coglierne appieno il significato.
Arrivò senza essere aspettato, venne senza essere stato concepito. Solo la madre sapeva ch'era figlio di un annuncio del seme che sta nella voce di un angelo. Era accaduto ad altre donne ebree, a Sara per esempio.
Solo le donne, le madri, sanno cos'è il verbo aspettare. Il genere maschile non ha costanza né corpo per ospitare attese. Risento l'aggravante di ignorare fisicamente la voce del verbo aspettare. Non per impazienza, ma pr mancanza di tenuta: neanche durante le febbri malariche mi veniva di ricorrere al repertorio delle immaginazioni di guarire, di stare in attesa di.

Prosegue, traduce e commenta i supplizi imposti e tollerati da Maria, prima con il viaggio verso sud, poi con le umiliazioni subite da suo figlio che la rinnega, asserendo di essere fratello e figlio di tutti, dei suoi discepoli, dei popoli. Continuando la lettura conosciamo da vicino la figura di Caino, di Isacco e anche di Reuvèn -Ruben- e di sua madre Lea, due condannati al non amore di Giacobbe, padre del primo e marito della seconda. Una condanna la loro, un'eterna ricerca di riconoscimento, di fedeltà e di amore appunto in cui il figlio proverà ad aiutare la madre a farsi amare dal marito, il quale purtroppo sceglierà sempre altre donne (finché in vita, Rachele la sorella di Lea e dopo la serva Bilhá). Rachele muore partorendo il secondogenito, Bilhá invece viene violentata da Reuvèn.
Giacobbe comprende. Reuvèn, dal nome sigillato dal dolore di sua madre, Reuvèn delle mandragore portate di corsa a Lea perché sia ancora fiera di fertilità, resta esempio di puro amore filiale. È lontano migliaia di anni dalla triste favola accampata intorno a Edipo, assassino di suo padre per presunto impulso d'incesto. Reuvèn, in tutto opposto a questo, vuole per tutta la vita che sua madre sia amata da suo padre.

Poche pagine, appena un centinaio, tra le quali si condensano enormi tematiche ingombranti, tutte argomentazioni da intendersi come le colonne portanti dell'Antico Testamento. Una sfida quella di De Luca che coinvolge chi lo legge. La sua ricerca spasmodica di Dio tra le pagine da lui stesso tradotte dalla lingua originale e argomentate, e il non riuscire a credere, alimenta in lui probabilmente la costanza di leggere un passo ogni mattina appena sveglio, sebbene la giustifichi come una semplice e gradita compagnia.

“Così le storie sacre tengono compagnia a un lettore....finché ogni giorno posso stare anche su un solo rigo di quelle scritture, riesco a non mollare la sorpresa di essere vivo”.