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#CriticaLibera - Il sangue e la parola: divagazioni leggendo Rupi Kaur

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milk and honey
di Rupi Kaur
Tre60, 2017

pp. 204
€ 12 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)


È l'aver a che fare quasi quotidianamente con gli adolescenti che permette di comprendere la necessità di un'opera come quella di Rupi Kaur (di cui Gloria ha parlato più organicamente qui). Non si tratta tanto di come sia, o cosa pensi, l'adolescente medio (sarebbe illogico e ingiusto generalizzare), ma del contesto in cui è inserito: dell'aria che respira, del linguaggio che apprende, delle idee da cui viene circondato. Anche i più sensibili, anche i più intellettualmente prudenti vengono toccati, subiscono la tentazione della facilità, della semplificazione, dell'applicazione di etichette. È normale, è connaturato all'età, è a tratti pericoloso, se non viene esercitata una censura da parte dello spirito (auto)critico, una continua revisione del proprio pensiero. La deriva che controllano è un vascelletto leggero, richiede un continuo aggiustamento di rotta. Tanti ci provano, va detto, anche senza bisogno di aiuto o supervisione esterna. Alcuni ci provano e non riescono (io forse sono stata un'adolescente di questo tipo, per cui il fallimento era uno sprone a ritentare). Altri non provano perché non ne comprendono la necessità. A questi soprattutto proporrei la lettura di milk and honey, come pungolo, come punto di leva per uno spiazzamento, ma più propriamente potrei dire scardinamento, dei luoghi comuni in cui galleggiano, da cui a volte si lasciano affascinare. In una poesia famosa, manifesto della sua poetica, J. G. Ballard diceva di credere "nella farsa della geometria, nella crudeltà dell’aritmetica, negli intenti omicidi della logica". Ho sempre percepito l'ambiguità di questi versi: da un lato la necessità di interpretare il mondo, di applicare griglie per leggerlo meglio, dall'altro la spietatezza della catalogazione, della volontà di ridurre tutto a una norma fissa, a qualcosa di rigido e conosciuto - e perciò rassicurante. C'è sempre un momento, in ogni anno scolastico, davanti ad ogni classe, in cui un insegnante deve ricordare agli studenti che le etichette ammazzano la gente. Che non si può forzare tutta la realtà all'interno di contenitori forniti dall'esterno, come quei giochi per bambini in cui per ogni formina colorata esiste una e un'unica sede. Questo ci diceva Ballard e questo ci ripete oggi Kaur. 

La scrittrice di origini indiane, trapiantata bambina in Ontario, è giovane. E, come i giovani di oggi, è forte e fragile al tempo stesso. Come loro, non ha paura delle parole. Usa i social come veicolo di comunicazione. Usa un lessico semplice, schietto. Abolisce le maiuscole, quasi completamente anche la punteggiatura. Le sue sono poesie che in un compito in classe avrei corretto forse con molti punti esclamativi rossi. 

Eppure non ce le si dimentica: ti si incidono dentro, perché ti pongono domande sulle quali non puoi scivolare con leggerezza. Ti inchiodano alle tue responsabilità di persona, ti obbligano ad indagare sulla tua identità, sulle tue certezze, sulle cose che dai per scontate. Penso agli adolescenti maschi: all'idea che talvolta hanno delle ragazze. Ai termini - talora sprezzanti - con cui ho sentito qualcuno definirle. Alla semplicità a cui vengono ridotti tanti amori giovani: ci sta/non ci sta. Se ci sta, è una sgualdrina. Se non ci sta, una cagna. Talvolta i lemmi vengono invertiti. Anche in questo caso, un lessico ridotto all'essenziale. Parole che coincidono con idee basiche, spesso quelli che le usano non sanno cos'è una metafora. Che cos'è una ragazza oggi? "Prof, guardi che alcune sono peggio di noi!". Sicuramente. E allora facciamolo leggere anche a loro, il volumetto della Kaur. Un libro esile, in cui la violenza della parola, dei sentimenti, viene fatta fiorire. In cui il linguaggio giovane diventa una risorsa (non un'arma). Quello che la scrittrice vuole delineare è un itinerario di crescita in cui molte potrebbero riconoscersi. Le tappe ricondotte ancora una volta all'immediatezza, alla purezza di un infinito: il ferire (soprattutto, in questo caso, l'essere feriti); l'amare; lo spezzare; il guarire. Cosa racconta Rupi Kaur? La ferocia dello stupro, il dolore di un'incompatibilità profonda con un padre con cui ci si identifica ma rispetto al quale si percepisce una diversità insanabile, il percorso faticoso e mai finito che porta a superare la paura (senza mai riuscirci del tutto); e ancora il coraggio di abbandonarsi a un altro con il corpo e con lo spirito - senza ritrosie una ragazza di ventun'anni sa descrivere l'amore nella sue duplice dimensione carnale ed emotiva. Kaur ci ricorda che siamo corpo, e che il nostro corpo ci appartiene, ci qualifica, fa parte della nostra dignità. Ci ricorda che a volte falliamo, ma che possiamo rimetterci in piedi, e che in questo - non nell'assenza della caduta - risiede la nostra bellezza, la nostra straordinarietà. 

milk and honey è un libro che parla alle donne, ma che può insegnare di più agli uomini. Perché ogni volta che dicono che una se l'è cercata (magari credendoci davvero), che apostrofano una loro amica compagna sorella con termini che rimandano ad altro (perché così ormai impongono la massa e l'abitudine), che inseriscono a forza una donna in un loro preciso catalogo mentale (in una precisa categoria semantica), ci ripensino e lo facciano, se devono farlo, con una consapevolezza nuova. Rupi Kaur suggerisce, senza moralismi o pietismi facili, di ridare il giusto peso alle parole e alle persone. Lo fa occupando il meno possibile la pagina bianca, lasciando spazio a un silenzio denso quanto le sue frasi. Lo fa mostrandoci attraverso una coraggiosa esposizione di sé come giovane donna che anche la nudità, anche l'identità, sono cose che si imparano poco alla volta. Che siamo costruzioni di parole e sentimenti, e che anche le parole e i sentimenti richiedono di essere educati. 

Carolina Pernigo