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"Non è il primo amore che conta": una disincantata biografia amorosa. "La natura dell'amore", di John Burnside

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La natura dell'amore
di John Burnside
Roma, Fazi Editore, 2017
traduzione di Giuseppina Oneto
pp. 281
€  17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Non è il primo amore che conta, a sentire Jacques Chardonne, né il secondo, né l'ultimo. È quello che ha unito due destini in una vita comune. (p. 176)
Scorrendo i primi capitoli de La natura dell'amore, il lettore può essere tratto in inganno da quello che apparentemente il libro può sembrare: un romanzo di formazione sentimentale. Tuttavia, arrivati all'ultima pagina, ci si rende conto che Burnside scava molto a fondo nell'animo del protagonista, John, ricostruendo la fisionomia di un uomo inquieto, complesso, incapace di trovare un equilibrio duraturo. Dai primi amori fino al ricovero psichiatrico, John ci porta dentro gli anni sessanta e da lì ci offre il suo punto di vista su tutte le donne che ha incontrato e amato, prima su tutte la madre.
La descrizione dei primi bollori e del primo destarsi di un sentimento amoroso da parte del protagonista adolescente è una delle pagine più delicate dell'intero libro – anche grazie all'opera di traduzione di Giuseppina Oneto – in cui il manifestarsi del primo moto amoroso si accompagna alla spinta all'idealizzazione tipica dell'amore adolescenziale, in cui si intuisce la volontà di avere un amore tutto per sé, sebbene non si sappia definirne ancora la fisionomia. Ancora ragazzo, John, per racimolare qualche soldo, inizia a consegnare i giornali, ed è lì che un giorno accade qualcosa di inatteso:
I nostri percorsi si incrociarono soltanto per un istante e prima che potessi fare o dire qualcosa lei non c'era più. Nei giorni e nelle settimane seguenti, regolai il mio giro al minuto per poter tornare in negozio ogni mattina alla stessa identica ora, ma non la rividi più. Chiesi diverse volte al giornalaio se la conosceva, ma lui non si ricordava neppure di chi stessi parlando e alla fine si stancò delle mie domande. […] ciò che volevo davvero era un amore che allora non avrei saputo descrivere a parole, ma che riuscivo a immaginare. (pp. 61-62)
Da questi primi amori John cresce e, tra le canzoni dell'epoca che ne segnano il cammino, incontra I put a spell on you, nella versione cantata da Nina Simone. È Madeline, la cugina più grande di dieci anni, a fargliela ascoltare, la prima ragazza che gli fa davvero perdere la testa. Ma è Christine, diversi anni più tardi, a segnare un punto di non ritorno nella vita di John: una storia mai decollata davvero e interrotta dallo stesso John, senza una motivazione apparente. Quello che a prima vista sembrerebbe il desiderio di libertà di un ragazzo ancora giovane, incapace di assumersi le responsabilità di una storia seria, diventa, in realtà, alla luce di una fredda autoanalisi che il protagonista compie su sé stesso diversi anni dopo, l'infelice e tormentata scelta di un'anima destinata all'auto-sabotaggio.
Capii che l'unico vero ostacolo a ciò che sarebbe potuto accadere quell'estate ero stato io. Non era stato Eddie, non erano stati gli altri e non era stata la timidezza. Era stata l'ostinazione. […] Sì, Christina esisteva; sì, il fatto che esistesse era insopportabile; ma finché io giocavo al gioco del desiderio e del rifiuto ero salvo. (p. 176)
Come mai l'avevo rifiutata? Come mai mi ero comportato in quel modo? Non riuscivo a trovare una risposta soddisfacente […] D'altra parte, devo accettare la possibilità di aver rifiutato Christina per la banalissima, prosaica ragione che avevo paura ci trasformassimo in una pura e semplice coppia. Come i miei genitori, per esempio. Come i genitori di chiunque. (p. 217)
E la voglia di indipendenza e il desiderio di giovinezza perenne che abita nei cuori dei giovani – degli anni Sessanta come di tutte le epoche – diventa prigione dorata, un'illusione di libertà che sfocia in un paranoico conflitto interiore. In tutto il libro si respira un clima fortissimo di nostalgia e rimpianto, la sensazione perpetua di una mancanza e di un'incompiutezza, la consapevolezza di essere il primo ostacolo alla propria felicità, e la ricerca continua – a vuoto – di un fine ultimo della propria esistenza, con la conseguente impossibilità di trovare un posto nel mondo. Cosa rimanga alla fine di un percorso mancato, quindi, non è dato sapere con certezza; forse, la consapevolezza che certe persone ci restano dentro anche dopo che pensiamo di essercene liberati, a creare un imprinting sentimentale dal quale è impossibile liberarsi:
Mia madre fu il primo esempio di una figura che cercai e ricercai finché con comparve Christina, e allora arrivai a capire che qualsiasi donna avevo conosciuto era un'approssimazione di quel tipo biologico. L'insegnante di francese per la quale avevo una cotta, a dodici anni. La giovane tedesca incontrata all'Eagle che sotto una certa luce densa di alcol somigliava a Kim Novak. La ragazza con la quale ballai tutta la sera al club cattolico per poi non chiederle di uscire e non rivolgerle più la parola, andandomene sotto la pioggia per via di una caparbia e inspiegabile ostinazione, come anni dopo me ne sarei andato senza tornare indietro non una, ma tutte le volte necessarie a rifiutare ciò che desideravo di più. […] erano tutte le forme di Christina. (p. 276)
Christina diventa paradigma di una felicità irraggiungibile e quindi perfetta, perché mai sperimentata. Una felicità tenuta a distanza dal protagonista, nella dimensione dell'irreale e dell'ipotesi, laddove tutto sembra più bello perché ideale.

Valentina Zinnà