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Il Salotto – Quattro chiacchiere con Toni Bruno tra fratelli Coen, Bruner e Michelozzi.

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Premetto che da circa nove anni sono un’assidua frequentatrice di fiere di fumetti, in qualunque parte d’Italia queste si svolgano. Sono quindi abituata alle scene di giovani appassionati carichi di volumi da fare autografare dal loro beniamino, noncuranti della fatica di ore trascorse in fila pur di accaparrarsi una firma sul volume tanto amato. Lo ammetto, tra di loro ci sono stata spesso anche io. I nomi erano però spesso altisonanti, famosi, pietre miliari della settima arte. Correndo alla Feltrinelli in Piazza della Repubblica a Roma, ho scorto un ragazzo con in braccio quattro o più volumi di Quassù la terra è bellissima. «Mi hanno accollato questa sessione di firme perché ero l’unico libero per venire», ha dichiarato fiero quando gli ho fatto notare il peso di questo accollo. Il successo di Toni Bruno sta tutto in questa immagine e con lui ne ho parlato un po’, partendo dal fumettista, passando per il cinema e arrivando al graphic novel.

Partiamo da Toni Bruno. Qual è stato il momento in cui hai deciso di fare il fumettista e perché?
Non c’è stata una sorta di illuminazione sul diventare un fumettista. Da bambino ho sempre disegnato. Anche se dicevo che volevo “fare i cartoni”, ero comunque consapevole di voler lavorare nel mondo dell’arte. Dal periodo delle scuole medie, poi, ho iniziato ad acquistare fumetti e ad appassionarmi a questo mondo e ho capito che quello poteva essere un mio modo di esprimermi. Posso dire che la voglia di diventare fumettista sia cresciuta insieme a me.

A questo punto sorge spontaneo chiederti quale sia il tuo padre putativo nel mondo della settima arte.
Attilio Micheluzzi e Hugo Pratt sono stati indubbiamente i più formativi, anche se non mi limitavo a leggere fumetti d’autore e seguivo anche il fumetto mainstream americano Marvel da edicola. Se devo aggiungere un altro nome, mi viene in mente Sergio Toppi del «Giornalino» di cui non perdevo un numero: amavo il suo modo di illustrare le storie. Grazie a questi nomi piano piano entravo nel mondo dell’arte e mi impegnavo per riuscire a raggiungere un analogo livello di narratività. Mi ricordo che facevo vedere ai miei genitori i miei primi schizzi e gli chiedevo «Ma questo vi sembra un fumetto vero?». Del resto i miei mi hanno sempre incoraggiato, di più mio padre che mi ha sempre incoraggiato di seguire la mia strada, pur mettendomi in guardia sulle inevitabili difficoltà che avrei incontrato sul mio cammino.

Passando da Toni Bruno al tuo figlio più piccolo, che secondo me è anche il maggiore. Nel testo ho ravvisato tante citazioni, da Vigotskij a Piaget, da canzoni a spezzoni cinematografici. Quanto è durata e come si è svolta la gestazione del tuo graphic novel?
La fase di gestazione vera e propria è durata cinque mesi, di cui tre sono stati impiegati alla ricerca preliminare e i restanti due alla lenta, seppur divertente (è il momento che più preferisco!) fase di elaborazione e sviluppo della trama, con brainstorming giornalieri e assemblaggi lenti e continui. Il resto del tempo fino al raggiungimento dei due anni complessivi di lavoro è stato occupato completamente da un continuo dialogo con Michele Foschini (editore Bao Publishing, n.d.r.), che mi ha fatto da editor supervisionandomi nel lavoro. Un’evoluzione, quini, lenta ma progressiva e continua. Pensa che il finale che leggete adesso (e che mi sembra più riuscito di quello che avevo pensato originariamente) è stato cambiato all’ultimo momento!

Da quassù la terra è bellissima è un testo che racconta, tra le altre cose, della paura e di quanto questa riesca a frenarci nella vita. Perché hai scelto un sentimento negativo come cardine della storia?
Io parto dal concetto di paura primitivo. Lo psicologo Della Sala parlava dell’ansia e della paura ricollegandole all’uomo primitivo che affrontava la caccia, quindi un’esperienza paurosa, preparando il suo corpo all’esperienza, aumentando i battiti del cuore per aumentare le prestazioni o la sudorazione delle mani per aumentare la presa sulla lancia. L’uomo moderno di fronte a una bestia feroce che c’è, ma non si vede concretamente, non ha reazioni fisiche e quindi ha due soluzioni: o nascondersi o scappare. La paura nasce quindi dal non sapere come gestire l’ignoto. Per questo per me la paura non è un sentimento negativo ma è quel campanello d’allarme che ti avverte di stare più attento rispetto a qualcosa che non va bene. Diversa invece è la gestione della paura, che è un processo molto lungo con diverse fasi, da rifiuto, accettazione a elaborazione.

Perché hai scelto di raccontare la corsa allo spazio dalla prospettiva russa?
La guerra fredda era una guerra contro un nemico invisibile, e in questa lotta, secondo me, i russi erano più avanzati rispetto agli americani sotto tanti punti di vista, da quello tecnologico a quello psicologico. Non a caso cito Vigotskij nel testo: Bruner, un grande psicologo (americano, vedi l’ironia della sorte) morto quest’anno, ha tradotto in inglese l’intero corpus delle opere del sociologo russo permettendone la circolazione nel mondo accademico.

Anche se lo negano apertamente, tutti i genitori hanno un figlio del cuore. Tra Akim e Frank, i due protagonisti del tuo graphic novel, quale guardi con più affetto?

Non riuscirei a risponderti perché non riuscirei a trovare un personaggio preferito nemmeno tra Akim e Fedor, che in fondo è un personaggio secondario, perché ho cercato di spalmare il mio io su tutti i personaggi della storia. Dalla loro unione viene fuori Toni Bruno, quindi è impossibile per me scegliere.

Tante tavole di Quassù la terra è bellissima ricordano scene di film. Quanto è stata forte l’influenza del cinema nel tuo graphic novel?
Ti dico un solo nome: i fratelli Coen. Ad esempio, quando ho pensato al finale insieme a Foschini, ne volevo scrivere uno alla Coen, e anche se poi non è stato così, ho comunque tenuto sempre in mente i loro film mentre scrivevo la storia. Loro sono i miei registi preferiti ed è il modo di fare cinema che più apprezzo, con tanta ironia e una completa caratterizzazione dei personaggi, com’è stato con l’apoteosi de Il grande Lebowski.

I dialoghi del tuo fumetto sono la vera forza di tutta la storia. Come riesci a controbilanciarli rispetto ai disegni per evitare che gli uni prevalgano sugli altri?
Recito in testa. Cerco di pensare al dialogo nella maniera più naturale possibile, provando a immaginare come io direi quella determinata frase. Non è sempre semplice, perché c’è spesso il tuo ego dietro l’angolo che spinge a forzare la mano. Cerco di essere il più naturale possibile, evitando gli spiegoni e facendo parlare i personaggi come chiunque parlerebbe a se stesso con la propria vocina interiore.

Infine, penso a te, Zerocalcare, Giacomo Bevilacqua, Stefano Turconi, Barbara Radice e mi viene in mente una scuola italiana del fumetto di qualità. Hai la stessa percezione anche tu?
Sì, in realtà c’è già stata e continua ad essere in crescita una scuola italiana di disegnatori, senza che una individualità artistica prevalga su un’altra; almeno non nella mia esperienza, nella quale ho sempre avuto contatti cordiali e professionali con tutti gli altri disegnatori. Nella nostra professione non c’è un individualismo più marcato rispetto ad altre. Tra l’altro, hai citato Radice e Turconi che io adoro, come autori e come persone. Ho davvero amato Il Porto Proibito.

(Toni Bruno sta già lavorando al suo prossimo graphic novel. Sono sicura che così come il ragazzo carico di volumi da autografare anche molti altri lettori ne aspettano la pubblicazione con trepidazione).