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Il Salotto - Intervista a Isidoro Meli

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Uscito da pochissimo libreria con La mafia mi rende nervoso (che abbiamo recensito qui), Isidoro Meli è una nuova voce letteraria davvero interessante, che non teme di "sporcarsi" le mani nell'ironia, a tratti sarcasmo, per raccontare la mafia dall'interno, con quel po' di scanzonatura che rende il romanzo piacevolissimo e lieve, nonostante i temi decisamente noir. Per la sua originalità e per la curiosità di sapere se ci saranno seguiti, ecco che abbiamo intervistato Isidoro Meli, purtroppo per e-mail, visto che lo sciopero dei mezzi di venerdì scorso ci ha impedito di arrivare a Milano.

Un siciliano che scrive di mafia, per di più nel proprio esordio narrativo. Quali erano i tuoi maggiori timori e quali le aspettative?

Timori, un’infinità: quello di essere autoreferenziale, di risultare sgradevole all’interno (di Palermo e della Sicilia) e poco comprensibile all’esterno. Di essere banale. Di ritrovarmi succube degli stessi atteggiamenti che nel libro metto alla berlina (uso eccessivo di retorica, di toni epici, di moralismo, in una parola sola, ipocrisia. Anche se scagliarmi con ipocrisia sull’ipocrisia avrebbe un suo fascino, in effetti).
Aspettative, un paio: riuscire a scrivere qualcosa di interessante per il maggior numero possibile di persone, indipendentemente dall’età e dalle provenienze geografiche. Riuscire a manifestare il mio fastidio nei confronti degli atteggiamenti di cui sopra senza diventare fastidioso io stesso e soprattutto senza appesantire la narrazione. Perché poi l’aspettativa di fondo è scrivere una storia che funzioni, e che alla fine lasci un buon sapore in bocca.


Nel romanzo, fai un largo uso di scene che richiamano fumetti e immaginario cinematografico. Hai dei modelli a cui ti rifai apertamente?

In questo romanzo pensavo fosse esplicito il riferimento all’opera di Kurt Vonnegut. Sto scoprendo invece che a chi legge non appare così evidente (e ovviamente di questa cosa sono contentissimo). Poi ci sono citazioni dirette e indirette a film e fumetti, a partire dall’esergo.  Per fare due esempi evidenti potrei dire la Venticinquesima Ora di Spike Lee, o Kiss Kiss Bang Bang di Shane Black .

Poi ci sono i miei modelli di riferimento generali. Lasciando da parte i grandi classici della letteratura (Hemingway, Buzzati, Leonard, Campanile, Cervantes, i Dumas, Salgari), nell’ambito di cinema e fumetti ci sono alcuni autori che mi hanno portato a riflettere sulla scrittura e di conseguenza hanno influito sul mio stile. Brevemente, direi l’accoppiata Raimi/Fratelli Coen, ovviamente Tarantino e Lynch (sono cresciuto negli anni ’90, voglio dire), i Monty Python, Mel Brooks, Bud Spencer & Terence Hill, Monicelli per il cinema; Rumiko Takahashi (autrice di Urusei Yatsura), Kazushi Hagiwara  (Bastard), Art Spiegelmann e Alan Moore per i fumetti.
Infine, come molti miei coetanei sono stato pesantemente influenzato da Ron Gilbert, il principale autore delle Graphic Adventures Lucas Arts. Monkey Islands e soprattutto Zak Mc Cracken (di cui Gilbert è coautore/guastatore) sono la base della mia formazione culturale.

Ironia e noir si fondono in modo quasi irridente nei confronti della mafia: non hai ricevuto nessun pizzino?

L’altro giorno a San Vito mi è venuto incontro un tizio che sosteneva di essere Matteo Messina Denaro.  Non somigliava alle foto note e agli identikit, perché (a suo dire) si era fatto fare una plastica facciale, e siccome voleva diventare più bello, un po’ come Rutger Hauer in Falchi della Notte, aveva chiesto al chirurgo di somigliare il più possibile a Califano, suo modello di bellezza assoluto. In effetti pareva proprio Califano sputato. Comunque, questo sedicente Messina Denaro mi ha detto che aveva ingaggiato una sicaria supersexy per scoparmi a morte. La punizione che meriterei, secondo lui.
A parte gli scherzi, penso che la mafia se ne fotta altamente di quello che scrivo io o chiunque altro. Qualora mi sbagliassi, punto sul rinomato senso dell’umorismo dei siciliani.

Quanto può entrare l’ironia in un romanzo noir, a tuo parere? C’è un limite che ti sei posto o hai lasciato che fosse la narrazione stessa a deciderlo?

Non mi sono posto nessun limite in partenza e non credo ce ne debbano essere in assoluto. Rileggendo, ho cercato di miscelare gli ingredienti sulla base di ciò che  volevo trasmettere.  Per quanto mi riguarda, se una cosa funziona, va bene.
E anche Isidoro Meli cede alla tentazione del selfie...
Parlando del genere noir, l’utilizzo di toni farseschi e ironici a dosi pesanti è presente in molti autori: Jim Thompson passa di continuo da atmosfere comico grottesche a momenti drammaticamente violenti. In Elmore Leonard, che da alcuni anni – giustamente – viene citato come uno dei maestri del genere, c’è sempre un tono di  ironia e superiore scazzo che aleggia su tutto. Oppure, e la chiudo qui, “Sognando Babilonia” di Richard Brautigan, dove il tono della farsa è così presente e pesante da diventare cinismo e dolore: puro noir.
   
La struttura del romanzo è piuttosto complessa, con più di una storia chiuse nella cornice del presente.  Il tuo narratore inaffidabile e un po’ cialtrone è utile a prendere almeno parzialmente le distanze dai fatti?

Beh, sì. La figura del narratore è quella che secondo me richiama in modo evidente a Vonnegut. Almeno per tre quarti di libro è un commentatore cinico e distaccato, che utilizza principalmente il paradosso per mostrare l’assurdità di certe situazioni. Nelle ultime pagine però il suo approccio cambia. Si mette in gioco anche lui.

In queste vacanze estive, molti studenti hanno ricevuto opere di Sciascia e di Verga come compiti. Pensi che i loro romanzi siano ancora utili per comprendere la Sicilia, o ormai sono solo un documento del passato?

Oddio. Secondo me è piuttosto vero il contrario: bisogna conoscere la Sicilia per comprendere appieno autori come Sciascia e Verga. Il discorso vale in generale, non credo che leggere Buzzati mi aiuti più di tanto a comprendere Milano; viceversa, avere conosciuto Milano mi ha permesso di vedere Buzzati sotto un’altra luce. Il tono di ironia e superiore scazzo di cui parlavo prima in riferimento a Elmore Leonard, mi è sembrato più chiaro dopo essere stato in molti dei luoghi della sua vita, La Louisiana, il Kentucky, il Michigan.
A parte questo credo che Sciascia e Verga siano ancora attualissimi per conoscere l’animo umano e certe caratteristiche dei siciliani, con le dovute differenze geografiche (Verga è un siciliano d’oriente, Sciascia d’occidente). Il Consiglio d’Egitto in questo senso è un libro significativo. Di Verga preferisco ampiamente i racconti alle opere lunghe.

Se invece ti chiedessero un libro davvero illuminante a proposito della mafia, quale consiglieresti (a parte il tuo)?

Il libro più illuminante a proposito della mafia è “Nel Regno della Mafia”, di Napoleone Colajanni, un tentativo di spiegare la mafia partendo da un fatto di cronaca di fine ‘800, l’uccisione dell’ex sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo (vicenda che mi piacerebbe raccontare, è ancora un’idea in nuce e non so dove porterà).
Per il resto, il massimo scrittore siciliano della seconda metà del ‘900 è sicuramente Giuseppe Fava. E lui di mafia ha scritto tanto, anche se il suo libro più grandioso, La Passione di Michele, parla di emigrazione.

Di solito c’è una certa superstizione che colpisce gli autori ma… Senza entrare nei dettagli, puoi raccontarci se stai scrivendo qualcosa di nuovo?

Ho già scritto qualcosa di nuovo: c’è un romanzo che ha avuto la sua terza stesura, e siamo ai ritocchi e bilanciamenti finali: è un romanzo di ventura, ambientato nel 1859. Racconta di quattro mentecatti che vengono mandati in Sardegna a rapire la donna di Garibaldi, per ricattarlo e impedirgli l’impresa dei mille.
A parte questo, per ora ho poco tempo per scrivere, avendo una figlia piccola, un lavoro, essendomi trasferito da poco. A metà luglio avrò dei giorni di vacanza, e di certo scriverò qualcosa, anche se devo decidere ancora cosa tra alcuni spunti che ho in mente.


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