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"Borderlife" di Dorit Rabinyan

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Borderlife
di Dorit Rabinyan
Longanesi Editore, aprile 2016



pp. 384
16.90 €


La storia d'amore tra Hilmi, giovane artista che tenta la fortuna nella Grande Mela, e Liat è apparentemente simile a molte altre: un incontro casuale, fortuito, in cui sin dai primi sguardi ogni gesto diventa invitante promessa, languido quesito che investe ogni oggetto che li circonda durante un fatidico autunno newyorkese. Un'affinità che si manifesta improvvisa, spiazzante, inarrestabile già da quell'iniziale incontro in cui i due tastano il terreno scivoloso della conoscenza reciproca, trovando con sublime facilità un punto d'equilibrio persino in quel lunghissimo piano sequenza (la trasposizione in termini cinematografici si adatta bene a descrivere i capitoli in cui dialogo e movimento per le strade della città scorrono di pari passo) che li vede in giro per New York, prima per raggiungere l'appartamento-studio di Hilmi e poi alla ricerca delle chiavi smarrite da quest'ultimo. Essi vengono ritratti mentre si stagliano sullo sfondo plumbeo della metropoli, i cui lividi paesaggi, grazie alla vivace scrittura della Rabinyan, appaiono saturarsi di tinte accese al loro passaggio. Durante quei momenti sospesi, densi d'interrogativi, in cui i due si studiano e cercano di imprimere sulla retina l'uno i più minuti dettagli dell'altra, sembra quasi di poter avvertire la qualità dell'aria che respirano, i rumori del traffico attutiti sullo sfondo: ogni loro azione, nel costituire le avvincenti prime pagine della loro relazione, ridefinisce gli spazi in cui si muovono, trasfigurandoli per sempre.
Liat, glottologa e traduttrice, si trova negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio che le permetterà di trattenervisi sino alla successiva primavera. Per lei, l'incontro con Hilmi si manifesta come improvvisa epifania dagli effetti non preventivati, le precipita addosso con la violenza di un cataclisma a cui cerca disperatamente di sottrarsi minimizzando la portata del proprio coinvolgimento, si sforza di arginare l'irresistibile attrazione, tanto fisica che intellettuale, che la lega a lui, di negare quella verità che il suo istinto le ha sussurrato appena ha visto il ragazzo: quella di un'affinità destinata a crescere e divenire uno di quei rari rapporti di coppia basati su un inesauribile confronto in cui la curiosità non si spegne progressivamente ma assume invece la foggia di un'inestinguibile sete dell'Altro. La lotta è impari e Liat non può fare altro che che seguire il proprio impulso, che rispondere agli inviti del ragazzo donandosi e ricevendo il suo amore, pur sapendo che la loro storia è nata per non andare lontano, legata a un qui e ora che è quel miracoloso tempo che le è concesso nella city americana.

Sì, perché a rendere il loro rapporto così diverso e vulnerabile rispetto a tanti altri è una questione d'identità, di appartenenza, di mera provenienza. Perché persino negli anni 2000 amare può rappresentare una sfida da dramma shakespeariano se i confini di un Paese, prima ancora dell'essere geografici, sono quelli imposti da politiche che hanno poco a che vedere coi popoli che le subiscono e sulla cui pelle hanno dolorosi risvolti: e nel clima di frustrazione, d'insicurezza, di paura, diviene la contrapposizione stessa con l'Altro, col Diverso, ad avvalorare il concetto d'identità, di nazione. Si tratta di limiti che solcano prima di tutto il cuore e la mente e solo in seconda battuta la terra e che rischieranno di compromettere la storia d'amore tra i due giovani: Liat è infatti israeliana, Hilmi è palestinese. La loro terra è la stessa, le abitazioni dei rispettivi genitori si trovano a pochi chilometri di distanza eppure esso costituisce uno spazio incolmabile, generato dalla diffidenza profonda che divide e accomuna occupati e occupanti, colonizzati e coloni. Un antagonismo costruito sulla base di pregiudizi che permeano anche le menti più aperte, di ferite difficilmente rimarginabili, un conflitto che, da una parte, è sfociato in una politica oppressiva e ha avuto come spaventoso effetto la marginalizzazione tanto territoriale che sociale di un intero popolo: processo la cui giustificazione etica risiede in un passato di diaspora e vessazioni e che pare condurre allo sconfortante assunto che, dalla propria storia passata, l'essere umano apprende più facilmente lezioni di strategia militare che di umanità.
Ecco perché Liat, nonostante sia affascinata dal retroterra culturale di Hilmi, dalla sua storia familiare, da Ramallah e dal fortissimo legame che lo unisce a sua madre e ai suoi fratelli, decide di tenere nascosta quella relazione ai suoi genitori.
Anche Hilmi è assetato di informazioni sulla vita della ragazza, sulla sua infanzia a Tel Aviv, sulla casa in cui è cresciuta, sul tratto di mare in cui, d'estate, va a nuotare. Quel mare di cui lei, nella eternamente fredda New York, ha nostalgia e che lui ha invece avuto occasione di visitare solo poche volte a causa delle restrizioni imposte da Israele ai movimenti dei palestinesi, quelle acque e quei cieli che Hilmi dipinge nei suoi quadri: quel blu profondo, che è il primo tubetto di colore a terminare e che senza parsimonia s'impone sulle sue tele, gli è precluso.
Corrugò la fronte. « Per quanto mi riguarda », disse posandosi una mano sul petto come avevo fatto io, « ci sono tre cose che non so fare. »
« Solo tre? Non è male. »
«Tre cose che un uomo dovrebbe saper fare... »
« Dovrebbe? »
« Sì. Un uomo dovrebbe saper guidare, e io non lo so fare. Non ho mai guidato. »
« Ualla. »
Lui reagì con un sorriso, come le altre volte in cui avevo usato parole arabe come Ualla o Ahla. Sollevando il pollice, iniziai a contare le sue mancanze: « Non sai guidare ».
« Non so usare un fucile. »
Senza volerlo, il pollice e l’indice distesi riproducevano la sagoma puerile di una pistola. «Già. »
« E non so nuotare. »
Vide che abbassavo lo sguardo. « Sono nato e cresciuto a Hebron », disse come per scusarsi, « e lì non c’è il mare. »
« Lo so, ma... »
« Poi ci siamo trasferiti a Ramallah, e neanche lì c’è. »
« Sì, ma a Gaza? » chiesi con una specie di squittio sgradevole. « A Gaza avete il mare... »
Sghignazzò stancamente. « Il mare di Gaza? » Poi cominciò a elencare tutte le difficoltà create dall’esercito israeliano a chiunque intenda passare dalla Cisgiordania alla striscia di Gaza: i permessi richiesti, i mesi di attesa. « Io sarò stato al mare tre volte. Tre volte in vita mia », disse. Sembrava non crederci neanche lui.
I dialoghi tra i due protagonisti riguardo alla scottante situazione arabo-israeliana si evolveranno in uno scambio sempre più teso, che non di rado sfocerà in accese discussioni che si aprono come baratri nel fertile terreno del loro rapporto, minandone le radici. L'unica certezza che Liat pare avere è che il loro amore ha già una data di scadenza fissata ed è quel terribile 20 maggio in cui la ragazza dovrà prendere il volo di ritorno dagli Stati Uniti. L'atteggiamento del sensibile ed estroso Hilmi rispetto alla enpasse in cui ella si trova alterna speranza e rabbia, per poi evolversi in una sorta di ferita rassegnazione per una storia che, già dal suo principio, è nata per spegnersi. Finisce per coltivare lo spazio magico del loro rapporto per la sua intrinseca ricchezza, sapendo che dovrà presto abbandonarlo, così come coltiverà l'orto palestinese, sudando e dissodando il terreno, seminando e potando, ben sapendo che non potrà godersi i suoi rigogliosi frutti perché dovrà tornare in America. Ma anche se Hilmi, nel suo amore per la vita e nella sua ancora più profonda devozione per Liat, appare scendere a patti con una relazione destinata a restare menomata, non mancherà di sottolineare quanto la barriera che separa israeliani e palestinesi non sia costituita dalla famosa Linea Verde (e poi dal muro che verrà edificato) che delimita gli ormai esigui territori palestinesi, ma da un altro confine più profondo che risiede nella mente di chi guarda, di chi dispera in una soluzione che soddisfi entrambi i popoli:

« Allora dove? Dove? Fammi vedere! » Ieri ho bloccato la scena e mi sono alzata di scatto dal divano. « La Linea Verde: dove sta più o meno, qui? » Sono andata alla destra del televisore e col dito ho seguito una riga lungo lo schermo, sulla valle, fra le colline. « Qui? » Ho riguardato da vicino il paesaggio di villaggi arabi e insediamenti, come se pensassi davvero di riuscire a vedere, fra le ombre scure della sera e le luci che si accendevano, una Linea Verde, una linea di confine concreta, magari tratteggiata, segnata sulla terra così come sulle mappe.
« Sta qui », ho sentito che sogghignava alle mie spalle.
E quando mi sono voltata, l’ho visto battersi il dito sulla testa. « Più o meno qui. »
Ma se le leggi dello Stato israeliano, la mostruosità grigia della security fence da esso voluta e i pregiudizi possono dividere, allontanare, coltivare il germe del sospetto e della discriminazione, altre leggi, quelle della natura, ricordano ai due amanti quanto le loro rispettive origini invece li accomunino, la loro provenienza dalla stessa terra. L'inverno newyorkese, uno dei più freddi da molti anni, arriverà amaro e desolante, ne minerà la salute e l'umore, li terrà in scacco per mesi mentre il gelo morde la pelle sotto i vestiti, penetra sino alle ossa facendo desiderar loro il conforto di alzare gli occhi e scorgere un frammento di azzurro:
«Da noi l’inverno è così gradevole », dice alla fine.
Tace di nuovo, in cerca di una parola ancora più adatta.
« Così... »
La mia mano destra è sempre dentro la sua, i palmi incrociati nella sua tasca – lui con il guanto di lana e io con quello verde di pelle, ormai smunto – e tutte le dieci dita stanno strette, quando dico tremando: « Umano ».
«Già. » Piega la testa con sollievo, la incassa fra le spalle.
« Così umano. »
Poi, dopo qualche istante di silenzio, chiede quasi a se stesso: « E se non avesse nulla a che vedere con la terra? »
Rabbrividisco nel suo grembo. « Quale terra? »
« Quella per cui ebrei e arabi combattono da tanti anni », continua con gli occhi chiusi e un’ombra di sorriso amaro sulle labbra. « Se invece riguardasse esclusivamente il sole, tutta questa guerra?»
Sembra sbigottito, quando bisbiglia: « Guarda tu, una guerra per il sole. Che roba... »
Qualcos'altro unisce però Hilmi e Liat ed è la percezione della loro presenza da parte dell'occhio occidentale. Nella New York in cui si muovono, a cavallo tra il 2002 e il 2003, le coscienze sono ancora scosse dal recente attentato alle Torri Gemelle, la gente ha negli orecchi lo slogan di Bush “War on Terror” e, si sa, quando si ha paura il nemico è dappertutto. Soprattutto se rappresentato da un' “oscura entità mediorientale” (così, scherzando, si definirà Liat). Non a caso il romanzo della Rabynian si apre, durante quello stesso strano pomeriggio in cui ella incontrerà Himsi, con la visita di due agenti federali al suo appartamento. Essi si presentano alla porta tirando fuori il tesserino, come fuoriusciti da una scena delle tante serie Tv, e mentre lei, nervosa e perplessa, risponde alle loro domande, scopre di essere stata segnalata per attività sospette: l'ebraico in cui traduce i saggi seduta al tavolino di un bar come tanti altri studenti, viene scambiato per arabo, e un'innocua traduzione per chissà quale attività illecita connessa al terrorismo.
Se è vero che la banalizzazione da parte del mondo occidentale di identità culturali anche molto distanti fra loro tende a unire in un unico mortificante calderone il mondo mediorientale, in certi casi sono gli stessi protagonisti a rintracciare punti di contatto nei loro diversi background, dalle abitudini alimentari sino a certe vicinanze linguistiche (e nel sentirsi parlare l'un l'altra le lingue natie, scopriranno che ciò che avevano considerato un insieme di suoni alieno e ostile, sulla bocca dell'amato riscopre una sua musicalità).

La costruzione letteraria della Rabinyan è affidata a un convincente io narrante, scelta efficace e funzionale a esplicare i meccanismi psicologici coinvolti nel confronto e nella conoscenza dell'altro: il personaggio di Liat, magistralmente caratterizzato, oscilla tra slancio appassionato e senso di colpa, sente se stesso parlare in difesa della propria nazione con rabbia e subito dopo si ritrae sconcertata, si concede e poi, esasperata, cerca di limitare quell'emorragia d'amore che la travolge. Una caratterizzazione tutta sfumata, che sembra aderire realisticamente ai processi così di rado pacificati in cui un individuo pensa se stesso all'interno di una relazione. La caratterizzazione di Hilmi è, a tratti, addirittura commovente: veniamo a contatto con lui attraverso una visione sempre filtrata dall'amore, anche quando essa si presenta in forma di rabbia cocente e disperata. Ma a prescindere dal sentire della giovane, la personalità del ragazzo verrà fuori con forza, riga dopo riga: la sua passione per l'arte, il garbo, l'indipendenza e la lucidità di pensiero che lo contraddistinguono, la sobria generosità.

Il dipanarsi della storia d'amore dei due personaggi influenza anche le coordinate spazio-temporali che fanno da cornice al racconto: il tempo va a strappi, si dilata e si contrae come nei ricordi, è il tempo interiore, quello della memoria, che fissa accanto a fotogrammi apparentemente insulsi lassi di vita di più ampia portata. I momenti divengono simboli, lettere di un alfabeto condiviso tra due persone, ogni litigio una cicatrice, ogni esperienza assieme un più elevato grado di conoscenza, il primo incontro atto fondante e memorabile. L'altro tempo, quello esterno, la concatenazione lineare di attimi, può essere al massimo scandito dalle stagioni che volano via, un conto alla rovescia che paurosamente si avvicina al momento in cui Liat dovrà tornare a casa. La stessa cosa vale per i luoghi: la New York dei due amanti è diversa da tutte le altre New York, è lo spettacolare e indifferente scenario dei loro incontri, a cui colori e dettagli sono restituiti dai dialoghi e dalle azioni che vi si svolgono, dal loro sguardo: è contemporaneamente città lugubre dall'inverno ostinato, da cui è necessario difendersi e proteggersi assieme, e luogo incantato che ha reso possibile che si conoscessero, che divenissero imprescindibili l'uno per l'altra, in cui su ogni panchina, parco, marciapiede o stazione di metropolitana è possibile leggere la loro storia.

“Borderlife”, è vero, è un'opera importante perché assume su di sé un ruolo gravoso, quello di consegnare ai suoi lettori una prospettiva più umana sull'odierna situazione arabo-israeliana. Non sorprende dunque che il Ministero dell'Istruzione di Israele ne abbia vietato l'adozione da parte delle scuole tra le letture all'interno del curriculum degli studenti. Le dichiarazioni del ministro Naftali Bennett sono state di questo tenore: “le scene di intimità tra la coppia [composta] da due parti opposte del conflitto minacciano di indebolire il fulcro dell’idea nazionale: Israele è uno stato ebraico e può rimanere così solo se gli ebrei stanno alla larga da relazioni amorose con non-ebrei”. Ciò che da esse chiaramente si evince è che questo piccolo romanzo d'amore, che invita gentilmente alla comprensione delle istanze di entrambe le parti coinvolte, ha in sé un potere deflagrante, quello di superare qualsiasi muro eretto a difesa del nazionalismo: andando a parlare direttamente all'animo delle persone, dimostra come una prospettiva più umana della situazione possa risultare l'arma più efficace per distruggere paura e ignoranza, odio e incomprensione.

Del resto, la censura a cui il libro è stato sottoposto ha sortito l'unico effetto di renderlo un best seller.
A differenza però di una moltitudine di romanzi il cui successo è in larga parte dovuto allo scalpore che hanno suscitato o a un particolare messaggio di cui si sono resi portavoce, i meriti artistici di “Borderlife” ci sono e sono ben riconoscibili, non dovrebbero quindi rischiare di passare in secondo piano: quella che la Rabynian ha confezionato è un'opera che, con leggerezza, induce il lettore a non staccare lo sguardo dalla pagina, a sincronizzare il proprio stato d'animo con le alterne vicende dei protagonisti, per abbagliarlo infine con pagine di pregevolissimo spessore letterario in cui i solidi mezzi stilistici dell'autrice si esprimono al meglio. E nel giungere alle ultime sconvolgenti righe, gli occhi vi indugeranno a lungo e si verrà colti da uno di quegli attacchi di nostalgia da cui inevitabilmente si viene colpiti nel terminare un libro che abbiamo amato.





Nike Gagliardi